martedì 20 maggio 2008

IL COMPUTER NON È UN IDOLO. Arrestiamo il disastro. Basta competenze e metodologia, dalla scuola vogliamo conoscenze

di Giorgio Israel
("Il Foglio", 20 maggio 2008)

In un recente articolo (“Corriere della Sera”, 12 maggio) Francesco Giavazzi ha richiamato la centralità della questione educativa ammonendo che società e individui che perdono istruzione vengono messi fuori gioco. A suo avviso, il “premio all’istruzione” è conseguenza della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica (internet, computer e uso crescente di modelli fisici e matematici nella finanza) per cui è compito del sistema educativo «tenere il passo» con i progressi della tecnologia. In realtà, il successo del modello occidentale (che è all’origine della sua globalizzazione) deriva dall’idea di una tecnologia fondata sulla conoscenza teorica. Pertanto, un’educazione che insegue la tecnologia segnala una condizione regressiva (una tecnologia che procede indipendentemente dall’istruzione di base) e/o una ricetta sbagliata (un’istruzione che insegue la tecnologia non va da nessuna parte). Difatti, i fattori di innovazione tecnologica indicati da Giavazzi sono di per sé vuoti di contenuto e non offrono prospettive educative. Internet e il computer sono meri strumenti con cui si possono fare eccellenti ricerche bibliografiche (se si è appreso come farle!) o scaricare informazioni improbabili da Wikipedia (per esempio che il Cardinale Ratzinger nel 1990 condannò Galileo), elaborare efficaci modelli matematici (se si conosce la matematica!), fare videogiochi o visitare siti pedopornografici. Non a caso, negli Stati Uniti si tende ormai a limitare l’uso dei computer nelle scuole: ma da noi le “innovazioni didattiche” vengono adottate quando altrove vengono abbandonate. Quanto alla crescente utilità dei modelli matematici in economia e finanza, vi crede soltanto un mandarinato accademico autoreferenziale che (come ha documentato un recente articolo sul Sole-24 Ore) di nascosto preferisce affidarsi alle previsioni basate sulla cabala o sulle teorie sgangherate del finanziere mistico degli anni 1920 William Gann. Il premio Nobel per l’economia Robert Aumann, recentemente richiesto di fare previsioni circa l’andamento della finanza mondiale sulla base della teoria dei giochi, ha ammesso onestamente che essa non gli permetteva di dire niente più di quanto potrebbe dire un qualsiasi uomo della strada.
Pertanto, non si contribuirà validamente al dibattito sulla riforma del sistema dell’istruzione se non discutendo, e a fondo, dei contenuti da trasmettere: contenuti autentici, non vuote metodologie. Questo è ormai il nodo gordiano della questione educativa in ogni campo. Anche Tzvetan Todorov ha posto tale questione al centro del suo recente libro La letteratura in pericolo, denunciando, in termini coraggiosamente autocritici, il disastro educativo provocato dalle visioni formaliste in letteratura che si concentrano soltanto sulle modalità della scrittura e trascurano i contenuti che essa trasmette, finendo col mettere da parte le opere stesse. Ogni architettura istituzionale e normativa crollerà su sé stessa se si considererà come una faccenda accessoria cosa insegnare; se (esempio emblematico) si pretenderà di insegnare a un bambino a dividere 300 per 15 al seguente modo: disegna 15 alberi e appendi ad essi in parti uguali i disegni di 300 palline, e poi colora tutto… La matematica si è sviluppata proprio per non dover disegnare e colorare centinaia o migliaia di alberi e palline. Qui non è in gioco soltanto un metodo didattico sbagliato, ma una concezione regressiva della matematica.
Più in generale, i dibattiti sull’istruzione appaiono dominati da una vacua ripetizione di formule di cui quasi nessuno conosce il senso. Tale è il caso dello slogan del “passaggio dalla scuola delle conoscenze alla scuola delle competenze”, che viene evocato come una necessità assoluta anche “perché ce lo chiede l’Europa”. Ma noi non siamo in Europa per ripetere a pappagallo qualsiasi formula e accettare qualsiasi sciocchezza – anche il divieto di cuocere la pizza nel forno a legna o le pericolose banalità del “politicamente corretto” – bensì per portare liberamente contributi razionali. Pochi sanno che la pedagogia per obbiettivi è un metodo di formazione professionale sviluppato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale per addestrare tecnici addetti alla manutenzione capaci di operare sotto il fuoco nemico o piloti da combattimento. È evidente che in questo contesto, come in molti contesti tecnico-professionali, è possibile dare una valutazione quantitativa delle prestazioni e quindi fondare in modo accettabile il concetto di “competenza”. I guai cominciano quando si vuole generalizzare tale concetto a ogni forma di apprendimento. Come definire una competenza in storia? La tentazione è di definirla con obbiettivi strampalati come la capacità dello studente di comporre testi storici (come predicano le Indicazioni nazionali del ministero dell’istruzione). Così la giusta esigenza che la scuola stimoli lo studente a una partecipazione attiva deborda nello scenario ridicolo di un popolo di poeti, scienziati, tecnologi, romanzieri, pittori, navigatori e trasmigratori. Sul piano della misurazione, poi, i docimologi – pur evitando di dirlo ad alta voce per non perdere le loro posizioni nelle agenzie di valutazione – ammettono che dopo un ventennio di diatribe e di centinaia di definizioni di “competenze”, misurarle risulta impossibile soprattutto quando intervengono (parole loro) “fattori affettivi e motivazionali”.
Se ci accontenteremo di slogan preconfezionati costruiremo sulla sabbia. Ad esempio, Giavazzi ribadisce giustamente che un sistema di autonomia scolastica richiede un buon sistema di valutazione. Ma, come abbiamo appena visto, la vera questione è cosa sia un buon sistema di valutazione. Non basta dire che è meglio controllare le scuole a tappeto e non a campione. Il problema è che le uniche valutazioni serie sono quelle qualitative, ma un sistema del genere è molto costoso. Viceversa le valutazioni basate su griglie di parametri quantitativi sono spesso inattendibili. Se ci affidassimo ciecamente a sistemi di valutazione improbabili (senza neanche valutarli) potremmo credere di aver fatto il nostro dovere e poi subire un brutale risveglio, com’è il caso di altri paesi, dove si valuta sistematicamente ma i risultati sono non meno disastrosi dei nostri, malgrado quel che fa credere il vizio nazionale di autoflagellazione. Inutile elevare a modello Finlandia e Svezia: le cose vanno molto meglio in India o in Corea del Sud dove si usano sistemi di insegnamento disciplinare e sistemi di valutazione del tutto tradizionali.
Altra questione: inutile parlare di “autonomia” se non precisiamo a cosa ci si riferisce. Appare ragionevole l’idea di concedere agli istituti la facoltà dell’assunzione diretta entro una lista nazionale di idonei. Assai meno ragionevole è l’autonomia intesa come licenza di definire come meglio garba contenuti e metodi dell’insegnamento, per cui in una scuola si aboliranno le ore di lezione, in una s’insegnerà Euclide e in un’altra la matematica cinese con le bacchette, in una si studierà musica col solfeggio e in un’altra battendo le pentole. La “libanizzazione” della scuola sarebbe un esito inevitabile. Né la concorrenza fermerebbe lo sfacelo. Perché una valutazione (e una conseguente graduatoria degli istituti) basata sulla “soddisfazione dell’utente” premierebbe senza ombra di dubbio il paese dei balocchi, come provano i pessimi esiti del parametro della “laurea in tempo” nell’università. Di nuovo servirebbe una valutazione qualitativa aliena da parametri aziendalisti, ma come farla senza la definizione di un insieme di contenuti base imprescindibili? Del resto, un paese che possiede una cultura nazionale degna di questo nome non può rinunciare a tale definizione.
La questione dei contenuti rispunta così da ogni lato. Anche le ragionevoli riserve sollevate da Giavazzi sul sistema (peraltro utile) dei “buoni scuola” richiamano il recente dibattito che si è sviluppato negli Stati Uniti. Giova menzionare un lungo articolo comparso sul Wall Street Journal il 27 febbraio (“School Choice Isn’t Enough”) in cui si spiega come, in base all’esperienza, i buoni scuola si sono rivelati utili ma non a tal punto da condurre alla sperata riqualificazione del sistema pubblico. È l’idea di affidarsi completamente alla concorrenza che si è rivelata inefficiente soprattutto quando si coniuga con le teorie pedagogiche dell’autoapprendimento. Il Dipartimento dell’Educazione ha fatto contratti per 10 milioni di dollari con il Teachers College Reading and Writing Project diretto dalla pedagogista Lucy Calkins, sostenitrice della teoria secondo cui i bambini possono apprendere a scrivere e leggere da soli, con qualche marginale aiuto dei maestri, e l’istruzione fonetica è una forma di abuso sui minori. I risultati si sono rivelati pessimi. Al contrario, nel Massachusetts, senza buoni scuola, senza incentivi di mercato e soprattutto senza pedagogismi, bensì sulla base di un severo curriculum disciplinare basato su un approccio sistematico tradizionale si sono ottenuti risultati considerati come uno “spettacolare miracolo educativo”. Il Massachusetts è oggi in testa in tutte le valutazioni federali per quanto riguarda la matematica e la lingua.
Ci troviamo quindi di fronte a questioni complesse che richiedono approfondite riflessioni ma che – soprattutto – non si risolvono né con gli slogan né con escogitazioni tecniche o con la metodologia, giustamente definita da Lucio Colletti la “scienza dei nullatenenti”.

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