mercoledì 11 giugno 2008

LA SCUOLA DICE ADDIO AL '68 di Giovanni Belardelli

("Il Corriere della Sera")
In Italia sono probabilmente troppe le cose che non dovrebbero dipendere da un responso della magistratura, eppure ne dipendono. Così, è appena accaduto che una decisione del Consiglio di Stato, respingendo un ricorso dei Cobas contro l'obbligatorietà del recupero dei debiti formativi disposta dall'allora ministro Fioroni, abbia indirettamente confermato una svolta importante nella nostra politica scolastica. Sulla decisione di rendere finalmente obbligatorio il recupero dei debiti scolastici stavano addensandosi da qualche tempo dubbi e perplessità più o meno strumentali, che lasciavano temere che tutto potesse restare come prima. Ma sembra ormai che così, appunto, non sarà, visto che il neoministro Mariastella Gelmini, confortata anche dalla decisione del Consiglio di Stato, ha dichiarato di volersi muovere nella direzione, intrapresa dal suo predecessore, di un ripristino della serietà (e dunque di un minimo di severità) nello studio. Ci verrà perciò risparmiato l'ulteriore spettacolo di una scuola che per anni ha preteso di svolgere una funzione educativa insegnando contemporaneamente alle nuove generazioni che i debiti formativi, cioè null'altro che le proprie lacune di preparazione, si possono pure non sanare, che, se si vuole, si può non sentirsi responsabili per ciò che a scuola si è o non si è fatto. Ripristinare il principio banale che a scuola, guarda un po', si deve studiare, che le insufficienze non possono essere accettabili oltre un certo limite di tempo, ebbene questo, se confermato, segnerebbe davvero una rivoluzione di portata eguale e contraria rispetto a quella — insieme antimeritocratica e antiselettiva — che venne veicolata quarant'anni fa (non solo in Italia, ma specialmente in Italia dove la cultura del merito è stata sempre assai debole) dai movimenti del Sessantotto. Attraverso la contestazione di una scuola e di una università per molti versi effettivamente autoritarie, attraverso richieste come il voto collettivo o la facoltà d'essere interrogati solo su argomenti scelti dallo studente, si affermò allora l'idea di una sostanziale illegittimità di tutto ciò che avesse a che fare con la valutazione individuale e la selezione. Ogni differenza nel merito diventò sinonimo di discriminazione sociale, come tale dunque inaccettabile. Si trattò di una vera e propria catastrofe culturale, che coincise per una buona misura con una trasformazione che allora si verificò nei ranghi della sinistra italiana. Da tempo nella cultura del Partito comunista si era affermata un'idea dello studio come fatica e impegno individuali: ogni buon militante doveva avere come modello Antonio Gramsci che nel carcere fascista, in condizioni di salute drammatiche, si era dedicato a una intensa attività di studio; doveva avere come modello quanti, inviati da Mussolini al confino, vi avevano organizzato corsi e scuole di livello universitario (uno dei primi libri sulla politica economica del fascismo, «Il capitale finanziario in Italia» di Pietro Grifone, poi pubblicato da Einaudi, era nato dalle dispense scritte per i confinati politici di Ventotene). Quella cultura, che avrà avuto mille difetti ma non quello di considerare come una specie di «diritto» la conservazione dei propri debiti formativi (cioè della propria ignoranza), finì però per entrare in crisi di fronte alla contestazione studentesca, portatrice di valori sostanzialmente antimeritocratici. Si affermò così quel «sessantottismo » come cultura diffusa, come nuovo senso comune, che doveva segnare sempre più la sinistra italiana e soprattutto molti degli insegnanti che mano a mano si sarebbero trovati a rinnovare il corpo docente del Paese. Ancora oggi un tale disastroso modo di pensare (di molti insegnanti, ma per fortuna ancora non di tutti) emerge nelle parole con le quali i Cobas hanno denunciato il pericolo che si possa affermare la «tendenza a bocciare alunni con più di due debiti gravi, con incremento notevole dell'abbandono scolastico». Quasi che il fine primario della scuola superiore non stia nel contrastare l'ignoranza degli studenti italiani (elevatissima, secondo tutte le statistiche internazionali) ma, appunto, l'abbandono scolastico. Quarant'anni dopo, è da augurarsi che il lungo Sessantotto italiano sia davvero prossimo alla fine.

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