sabato 27 dicembre 2008

CHI SONO I BRAVI INSEGNANTI? OVVERO, ALLA RICERCA DEL MERITO PERDUTO

di Sergio Casprini


Negli ultimi mesi opinionisti, intellettuali, uomini di scuola e di partito hanno promosso una discussione sulla meritocrazia nella Pubblica amministrazione ed in particolare nella scuola. A questo proposito va ricordato l’intervento del Gruppo di Firenze con la “Lettera aperta ai partiti”, sottoscritta da intellettuali e professori universitari e presentata al Liceo Visconti di Roma durante la campagna elettorale di questo anno.
Se nessuno nega l’importanza di promuovere serietà e responsabilità tra i docenti, le proposte che vengono fatte sono purtroppo viziate da pregiudizi e luoghi comuni sugli insegnanti, a conferma della scarsa conoscenza da parte di molti degli specifici aspetti di questa professione.
In primis, nonostante le denunce sulle malefatte dei “docenti fannulloni”, in particolare quella di Ichino, ancora si sottovaluta il fatto che la sanzione del demerito, fino al licenziamento appunto dei fannulloni, sarebbe un primo passo importante per una riqualificazione della scuola italiana in termini di serietà ed efficacia didattica. Ma no: i nostri riformatori meritocratici hanno invece la presunzione di poter facilmente individuare gli insegnanti più bravi per premiarli con incentivi economici e/o con avanzamenti di carriera. Non a caso paradossalmente è stato rivalutato l’operato del ministro Berlinguer, a suo tempo bocciato sonoramente da tutta la categoria docente e non certo per motivi corporativi (su questo vedi l’intervento di Andrea Ragazzini su questo blog).
Ma chi sono dunque gli insegnanti bravi? Sono bravi forse coloro che ottengono un buon rendimento scolastico dai loro allievi? Ci si scontra in questo caso con l’impossibilità di misurare la produttività del docente come si misura la produttività in ufficio o in fabbrica: gli allievi non sono tutti uguali da un punto di vista cognitivo e conta pure il contesto classe in cui sono inseriti.
Sono allora bravi quelli che si aggiornano periodicamente ed inoltre fanno pubblicazioni, acquisendo titoli culturali e scientifici? Quando si parla di aggiornamento mai si pensa anche a un serio e frequente confronto a carattere seminariale tra colleghi (su questo argomento è esauriente l’articolo di Giorgio Ragazzini), ma si ripropone un ritorno all’Università o la frequenza di inutili corsi di tipo psico-pedagogico, (senza dimenticare l’auto-aggiornamento “non istituzionale” dei docenti seri: lettura, cinema, teatro, musei...). Nel caso poi degli insegnanti che hanno all’attivo pubblicazioni nella loro disciplina, c’è da considerare che spesso viene meno l’impegno professionale in classe, assorbiti come sono dal lavoro scientifico.
Infine, sono invece bravi i docenti che assumono ruoli di responsabilità nella gestione didattica od organizzativa della loro scuola oppure partecipano alla realizzazione dell’offerta formativa e all’organizzazione di corsi di aggiornamento o del tirocinio per i giovani colleghi?
In questo caso si confonde la funzione dell’insegnante che opera in classe con quello che assume ulteriori incarichi, sia pure importanti, oltre all’insegnamento. Si tratta ovviamente di nuovi ruoli che vanno definiti giuridicamente a livello nazionale e che sono necessari per andare incontro alle necessità delle scuole autonome.
A mio parere invece si può riconoscere la qualità professionale dei docenti italiani nel verificarsi di tre condizioni: le prime due sono costitutive dell’essere insegnante: la conoscenza della propria disciplina e l’amore per essa, insieme al piacere di insegnarla; la terza è data dalla progressiva acquisizione di maggior capacità professionali garantita dall’esperienza e quindi dall’anzianità di servizio.
Immagino che molti potrebbero considerare queste conclusioni la corporativa riproposizione dei tradizionali automatismi di carriera a scapito dei meritevoli. Nel ribadire intanto che rimuovere dalla scuola i non meritevoli e cioè i fannulloni sarebbe una scossa salutare per tutta la categoria, sono consapevole anch’io che un eccesso di autoreferenzialità può avere effetti negativi se non si trovano i giusti contrappesi.
L’aggiornamento professionale insieme ai colleghi della propria scuola ed una verifica periodica (ogni 4/5 anni) del proprio operato possono però garantire che l’anzianità di servizio non si riduca ad un solipsistico esercizio dell’attività professionale con ovvie ricadute negative sulla didattica.
Sulle modalità della valutazione degli insegnanti e sulle figure a cui affidarla occorre affrontare un altro ordine di problemi, che esulano dal tema che mi sono proposto in questo intervento; posso solo suggerire che una valorizzazione professionale non dovrebbe prescindere dalla costituzione in sede locale e nazionale di organismi tecnici, tipo albi e consigli professionali rappresentativi degli insegnanti, da cui trarre almeno una parte dei valutatori.

LE CATTIVE MAESTRINE DALLA PENNA ROSSA

Lo stile di pensiero “politicamente corretto” in ambito educativo si traduce nella protezione a ogni costo dei figli o degli allievi: da qualsiasi prova, difficoltà, delusione o frustrazione. Purtroppo così facendo non si produce forza psicologica e morale, ma fragilità, pigrizia e scarso senso della realtà.
L’ultima trovata di questo benintenzionato filone pedagogico viene dal Regno Unito, dove si sta diffondendo il consiglio o addirittura il divieto (non si capisce bene) di usare la penna rossa per correggere gli errori degli allievi. Ne parla Cristina Nadotti su “Repubblica” (Addio penna rossa - “Quelle correzioni danno troppa ansia”). L’autrice simpatizza apertamente per questa nuova frontiera dei diritti umani.
Decisamente meno sintonici i commenti . Marco Lodoli sullo stesso quotidiano dà fondo al suo sarcasmo; Marcello D’Orta sul “Giornale” ipotizza un “Complesso Dickens” all’origine dei sensi di colpa britannici; Massimo Gramellini nel suo Buongiorno affianca la notizia a quella del licenziamento di una centralinista della Florida che rispondeva al telefono “Buon Natale”.

martedì 23 dicembre 2008

PROGRAMMI O "IMPARARE A IMPARARE"? UN BIVIO CRUCIALE PER LA SCUOLA

È sempre più evidente l’urgenza di fissare per ciascun livello degli studi alcuni traguardi minimi da raggiungere obbligatoriamente per poter andare avanti. Gli errori ortografici di cui molti laureandi infiorettano le tesi, la povertà lessicale, la difficoltà nell’organizzare testi in modo logico stanno da tempo dando luogo a una florida aneddotica universitaria. Nelle fioroniane “indicazioni nazionali per la costruzione del curricolo”, ad esempio, tra gli obbiettivi di apprendimento per la classe quinta, quello di “produrre testi corretti dal punto di vista ortografico, morfosintattico, lessicale” figura all’ultimo posto di una serie di altre abilità più sofisticate, senza che ne venga sottolineata la centralità. E non a caso l’obbiettivo lo ritroviamo in forma quasi identica fra quelli indicati per la terza media.
Da tempo Giorgio Israel, docente di matematica alla “Sapienza” di Roma, si batte per un ritorno ai programmi, cioè a una serie di contenuti disciplinari che la collettività ritiene indispensabili nei diversi ordini di scuola. E nel far questo non ha mai perso l’occasione per polemizzare contro il superamento dei programmi in favore delle “competenze”, concetto oltretutto sfuggente e controverso. In un’intervista rilasciata a “Il Sussidiario.net” si parla di questo, ma anche della cautela che si deve avere nell’affidarsi alle scuole “autonome” (spesso non in grado di sbrogliarsela con problemi più grandi di loro e soprattutto dei loro dirigenti), nonché della “pazzia” che, oggi come oggi, costituirebbe l’affidare ai singoli istituti il reclutamento degli insegnanti.
Il professor Davide Mulas, del Liceo Ginnasio “Dettori” di Cagliari, ci segnala a questo proposito un articolo di Andrés De La Oliva pubblicato su “El Paìs”, che lo stesso Israel ha riprodotto (in traduzione e lingua originale) sul suo blog e che è intitolato La truffa dell’insegnare a insegnare. Personalmente non metterei sullo stesso piano "imparare a insegnare" e "imparare a imparare". La conoscenza approfondita della materia è senza dubbio fondamentale, ma non sempre basta a saperla insegnare. De La Oliva stesso si contraddice, scrivendo che "i laureati che mai hanno insegnato non sanno insegnare non perché gli difetti una preparazione pedagogica o psicopedagogica, ma perché gli manca la pratica dell’insegnamento". Ma se è utile la pratica dell'insegnamento, non è vero che basta sapere bene la propria disciplina.
Mettere l’ "imparare a imparare" in cima alle competenze è invece un’autentica sciocchezza , dato che, da quando si impara, si impara a imparare più che altro imparando... E imparando cosa? Contenuti disciplinari, appunto. (GR)

sabato 20 dicembre 2008

DA GENTILE ALLA GELMINI NEI LICEI CLASSICI LA STORIA DELL’ARTE RIMANE UN’OSPITE

Scriveva Matteo Marangoni nel 1932: “È un fatto che quanta importanza si dà nelle scuole alla storia della letteratura, tanto poca se ne riconosce alla storia dell'arte, a quell'arte che è certo la più grande gloria artistica d'Italia”.
È una considerazione che Marangoni si troverebbe a dover fare ancora oggi di fronte ai piani studio dei licei che il Ministro Gelmini ha presentato il 18 dicembre scorso in Consiglio dei Ministri. Nei nuovi piani di studio sono diversi gli aspetti criticabili e molte le discipline ridimensionate, o potenziate, secondo criteri poco chiari.
Ma il caso della storia dell’arte è indubbiamente il più peculiare, anche perché è in assoluto l’unica materia in tutto il sistema dei licei (ma anche dei tecnici), per la quale si preveda una sola ora di insegnamento settimanale in ben tre indirizzi di studio: classico, linguistico, delle scienze umane.
In particolare nel Liceo Classico, scuola umanistica per eccellenza, dove si pensava che andasse a regime il piano di studi delle sezioni sperimentali attivate negli ultimi anni (2 ore in tutto il quinquennio), la storia dell'arte, che è parte essenziale del patrimonio culturale europeo, verrebbe riconsegnata alla tradizionale funzione ancillare prevista dalla Riforma Gentile, che pure ebbe il merito di introdurre per la prima volta questo insegnamento.
All’intento-base di ridurre all’essenziale il numero oggi sterminato di indirizzi si dovrebbe affiancare quello di valorizzare le materie che li caratterizzano; e da questo punto di vista, per fare un esempio, ci si chiede se sia logico prevedere nel classico, in luogo di un potenziamento della storia dell’arte, l’aumento di un’ora di matematica.
La nostra classe politica vanta continuamente il primato quantitativo e qualitativo del nostro patrimonio artistico e il prestigio che per questo l’Italia ha nel mondo, proclamandone il ruolo fondamentale anche per le nostre prospettive economiche. Ma simili scelte in materia di istruzione non sembrano troppo coerenti con tali affermazioni. (A.R.)

mercoledì 17 dicembre 2008

SCUOLA: GRANDI RIFORME E PICCOLI PASSI

Sulla “Stampa” Alberto Bisin, docente di economia nella New York University, esamina i risultati dell’indagine internazionale sullo studio della matematica e delle scienze (TIMSS), i cui dati sono stati resi noti in questi giorni (Il bicchiere mezzo vuoto). E conclude che una vera riforma della scuola consisterebbe “nel lasciare più indipendenza alle scuole, ai presidi, alle famiglie”, soprattutto per quanto riguarda l’assunzione e la retribuzione dei docenti e la libertà di scelta dei genitori. Certo, scrivendo sui giornali bisogna essere sintetici. In questo tipo di interventi, però, manca in genere qualsiasi accenno alle difficoltà e ai tempi realisticamente prevedibili per la loro attuazione. Si tratterebbe di passare (in un periodo abbastanza breve da evitare che la scuola affondi nell’attesa) da un sistema del tutto impersonale – che non concede una virgola al merito – al libero mercato concorrenziale dei docenti e delle scuole.
Quanto sia realistico tutto questo alla prova della concretezza andrebbe forse esaminato meno superficialmente, a cominciare dal fatto che una vera e propria concorrenza tra scuole è irrealizzabile negli infiniti piccoli centri che possono offrire un solo esemplare per ogni tipo di istituto. Comunque parliamone, come suol dirsi.
Intanto, però, senza dover aspettare le calende greche delle grandi riforme, possiamo immediatamente fare qualche passo importante verso una maggiore serietà della scuola a tutti i livelli. E, quanto ai docenti, ci sarebbe già un efficace modo indiretto di valorizzare e stimolare il merito, come abbiamo detto più volte: quello di mettere i dirigenti in grado di colpire il demerito. Cioè i casi di conclamata inadeguatezza (incapacità cronica o sopravvenuta) o inadempienza (grave scorrettezza etico-professionale). Probabilmente non molti, ma dannosissimi per gli studenti interessati e per l’atmosfera morale complessiva della scuola italiana. Questo nel breve termine. Per il medio periodo, una rigorosa selezione in entrata, anche di tipo attitudinale. Niente di elitario, s’intende. Nessuna aspirazione a una casta di sublimi maestri perfetti. Ma un minimo di idoneità relazionale, oltre all’attrezzatura culturale, didattica e deontologica, vogliamo cominciare a pretenderla? (GR)

lunedì 15 dicembre 2008

ZIG ZAG, STOP AND GO, MARCE INDIETRO; MA LA NEBBIA COMINCIA A DIRADARSI

Luca Ricolfi, forse il più acuto osservatore della politica italiana, nell’editoriale di oggi sulla “Stampa” individua i punti deboli della politica del centro-destra, che anche le vicende dei provvedimenti sulla scuola hanno messo a nudo.
“Tuttoscuola” aiuta a diradare la nebbia sull’entità dei cambiamenti di rotta del ministro con un articolo in due parti (Gelmini/1 e Gelmini/2).
“L’Unità”, invece, con la scrittrice Silvia Ballestra, sostiene che “il maestro unico (o prevalente, questione di lievi e paraculeschi slittamenti semantici) è facoltativo”. Ma tra le scelte alternative sembra proprio che non ci sia più il modulo.
Ancora nebbia fitta, invece, sulle sorti dell’italiano nella scuola media, che, secondi gli annunci delle settimane scorse, doveva essere “potenziato” insieme alla matematica. L’orario minimo obbligatorio sarà di 30 ore, mentre dovrebbero sparire le ore solo in teoria opzionali della riforma Moratti (il famoso 27+6). L’insegnamento di lettere, che attualmente dispone di 9 ore più 2 “opzionali” per classe (in pratica le tradizionali 11), secondo quanto si dice perderebbe 2 ore. Facendo i conti: almeno 2 ore di storia, più 2 di geografia, a cui si aggiungerà dal prossimo anno quella di educazione civica; e fanno 5. Per l’italiano ne resterebbero quindi 4, contro le attuali 7. Anziché essere potenziato, subirebbe quindi una decurtazione del 42,8%...

sabato 13 dicembre 2008

LA BACCHETTA MAGICA DELL’AGGIORNAMENTO OBBLIGATORIO


di Giorgio Ragazzini

L’aggiornamento è un diritto del docente o anche un dovere? Questione più volte dibattuta in questi ultimi anni. Sotto il profilo giuridico si può leggere, dal sito dell’Adi, il documentato parere del professor Carlo Marzuoli, uno dei maggiori studiosi della scuola come servizio pubblico, che conclude: è un diritto, ma indubbiamente anche un dovere.
Con ciò, però, il problema dell'aggiornamento è tutt'altro che chiuso. Abbiamo infatti un obbligo ancora privo di oggetto preciso. E cioè: su che cosa un docente si dovrebbe aggiornare? E chi lo stabilisce?
Mentre il medico è tenuto a tenersi informato sulle novità nella diagnosi e nella terapia, l’avvocato sulle nuove leggi e l’ingegnere sui progressi tecnici nel suo campo, non mi pare che per tutte le materie di insegnamento esista qualcosa di così evidentemente necessario. Il nostro lavoro non è una scienza esatta e comporta conoscenze di tipo disciplinare, ma anche relazionale e metodologico; e su questo non ci sono, né ci possono essere, verità indiscutibili.
C’è invece chi è convinto che l’obbligo di aggiornarsi sia una specie di bacchetta magica per la scuola italiana. Tra le più recenti prese di posizione quella dai toni sdegnati e ultimativi di Omer Bonezzi, presidente di “Proteo Fare Sapere”, l’associazione professionale di area Cgil. A mio avviso sarebbe invece deleteria la riproposizione del tipo di aggiornamento prevalente negli scorsi decenni, che, lungi dal riqualificare la scuola italiana, ha largamente contribuito alla demotivazione e al disamore per il nostro mestiere. A quanti colleghi è accaduto, infatti, che l'ispettore, l'esperto, il docente universitario di turno si sia rivolto ai presenti come a professionisti depositari di qualche competenza? A me personalmente mai. E poiché a nessuno fa piacere di essere trattato come oggetto di rieducazione, per di più da persone spesso con poca o nessuna esperienza concreta di insegnamento, è comprensibile che molti di noi si siano stufati di corsi e convegni in cui veniva rivelato “il verbo” sulla didattica, spesso in modo fumoso e astratto.
Non posso fare a meno di citare il tentativo in grande stile di far attecchire la programmazione per obbiettivi (nata negli USA in contesto non scolastico), la quale per un po' è sembrata affascinare, con la sua apparente logica scientifica, un certo numero di colleghi, ma che all'atto pratico si è rivelata arida e impraticabile (centinaia di obbiettivi e sotto-obbiettivi, smania di registrare e valutare oggettivamente ogni respiro del discente...).
D’altra parte un periodo di aggiornamento obbligatorio è esistito, quello legato agli “scaloni” (cento ore di aggiornamento in sei anni), risoltosi in gran parte in una fiera di corsi e corsetti per la maggior parte inutili. Bonezzi questo periodo lo giudica tutto sommato positivamente:
"Il sistema aveva dei limiti: i collegi docenti [...] approvavano tutto, compreso corsi di ballo, scacchi ed equitazione. Con i limiti detti e i brontolamenti degli insegnanti libero professionisti fu una stagione notevole: in 5 anni un milione d'insegnanti ha in ogni modo fatto formazione per 100 milioni d'ore."
Traduzione: il livello dei nostri insegnanti è talmente basso che anche un corso pur che sia è meglio di niente. Questa sarebbe la qualità della "leva strategica fondamentale" per il rinnovamento della scuola...
E allora? Ho sempre pensato – e l’esperienza me ne ha dato ampia conferma – che per trasformare gli insegnanti in professionisti a tutti gli effetti è necessario prima di tutto trattarli come tali, invece che come scolaretti da correggere. Bisogna quindi farla finita col dominio sulla scuola italiana di quella casta dei pedagogisti paraministeriali che ha cercato di imporre dall’alto i suoi dogmI. Il cardine della formazione continua deve essere il metodo seminariale, tipico del mondo della scienza e della cultura alta, in cui ci si scambiano liberamente idee, esperienze, proposte, meglio se svincolate da obbiettivi contingenti. Questo metodo, che ha tra l'altro il vantaggio di non costare nulla o pochissimo, si fonda principalmente non sull'asimmetria tra "esperto" e aggiornandi, ma sulla convinzione che tutti hanno qualcosa da dare (successi da condividere, errori su cui riflettere, problemi da porre ai colleghi), partendo dal proprio patrimonio professionale. Così si valorizzano e rimotivano fortemente i partecipanti, che si sentono “comunità professionale”, anche per il fatto di stabilire loro, e non altri, su cosa aggiornarsi. L’aggiornamento degli “esperti”, invece, presenta spesso in forma compatta e priva di incertezze un ideale molto elevato, che deprime invece di sollecitare le energie (anche perché spesso accompagnato dalla sollecitazione ad accedere a un “nuovo” modo di insegnare).
Ovviamente anche il metodo seminariale ha le sue esigenze, tra cui la preparazione e il coordinamento del lavoro. Ma la strada è questa. Eventualmente saranno poi gli stessi docenti a sentire il bisogno di integrare liberamente il loro lavoro con il contributo di pesone competenti su questo o quel punto.
Quanto all’obbligo (che non è in sé un buon motivatore), è inevitabile che il principio venga affermato. La principale spinta ad aggiornarsi deve essere però non il “dovere”, ma l’esigenza di migliorare l’efficacia della propria azione didattica sotto tutti i profili: disciplinare, metodologico e relazionale. Eviterei quindi di stabilire per legge più di un minimo di ore annuali obbligatorie. Meglio un’adesione libera e motivata che una presenza passiva e poco interessata. Per questo ogni scuola o rete di scuole dovrà progettare l'aggiornamento in modo tale da offrire sempre più di una proposta. In altre parole dobbiamo scegliere tra docente-esecutore e docente-professionista, cioè tra una visione autoritaria dell'aggiornamento come adesione a dogmi didattici stabiliti dall'alto e una visione liberale, imperniata sul binomio libertà e responsabilità.
Teniamo poi conto che le norme che in questo periodo sono all'attenzione del parlamento valgono soprattutto per il futuro, in cui ci auguriamo una approfondita preparazione iniziale degli aspiranti docenti. Il che dovrebbe far cessare i ricorrenti e irrealistici progetti di riqualificazione ab imis dell'intero corpo docente.

POLITICA E CHIAREZZA FANNO SEMPRE PIÙ A PUGNI: ESISTE ANCORA IL DIRITTO A ESSERE INFORMATI?

Ma la Gelmini è tornata sui suoi passi o invece non è cambiato nulla? Si sceglie fra maestro unico/prevalente e modulo oppure fra maestro unico e maestro prevalente? I tagli e i risparmi preventivati ci saranno o no? Quanti hanno scioperato ieri? Quanti sono scesi in piazza? Sulla riforma delle scuole superiori ci sarà una consultazione o solo un’ampia informazione su quanto sarà stato già deciso? (1)
I cittadini italiani – e non solo sui problemi della scuola – sembrano aver perso il diritto a un’informazione facilmente comprensibile sulle decisioni politiche e neppure sui dati numerici si trova facilmente un punto di incontro (ricordate gli scontri sull’esistenza dei “tesoretti”, sui buchi di bilancio, sul vero costo della vita e via dicendo)? La pratica poi di gonfiare in modo ridicolo le cifre di scioperi e di manifestazioni ha fatto perdere ormai ogni credibilità ai commenti del giorno dopo (“flop” e “successo” si alternano anche oggi sui quotidiani senza possibilità di cavarci le gambe).
Fin dall’inizio la tormentata vicenda del maestro unico è stata segnata dall’ambiguità (tra gli altri più volte rilevata da“Tuttoscuola”). Si parlava, è vero, di tener conto delle scelte delle famiglie, ma anche che andava “privilegiata l’attivazione di classi affidate a un unico docente funzionanti con orario di 24 ore settimanali”. Neppure le numerose interviste rilasciate oggi dal Ministro Gelmini riescono a fare del tutto chiarezza. A occhio sembra meno contraddittoria quella pubblicata dal “Giornale”. La integriamo con la cronaca che “Il Sole 24 Ore” dedica all’accordo Governo-Sindacati (preparato dal lavoro in Commissione Cultura di Valentina Aprea). Buona lettura...

(1) Intanto sono in circolazione la nuova bozza di Regolamento per il riordino dei licei e quella per il riordino degli Istituti tecnici (i professionali sono fermi alla prima versione).

martedì 2 dicembre 2008

COM'ERA PREVEDIBILE, ENTRA IN CRISI IL METODO BRUNETTA DI SORVEGLIARE E PUNIRE TUTTI

Il 30 luglio avevamo valutato negativamente i provvedimenti del ministro della funzione pubblica per contrastare l'assenteismo (Però, caro Brunetta, così non si premia il merito...). Siamo solo ai primi di dicembre e già viene al pettine, com'era prevedibile in base all'esperienza passata, il nodo dell'eccessiva spesa di controlli generalizzati. Le visite fiscali se le devono pagare le scuole, i cui fondi sono già al lumicino. I giornali cominciano a segnalare il crescere dell'opposizione a un metodo che, accanto al versante finanziario, colpisce indifferentemente con le trattenute previste tanto i furbi che le persone serie. Leggi.
A proposito di merito, su "Europa" Paolo Francini ragiona su come ripristinare almeno in parte il legame da tempo appannato tra successo negli studi e prospettive di occupazione e di benessere economico.