lunedì 27 dicembre 2010

VALUTAZIONE, DEMERITO E IRRESPONSABILITÀ

Sugli orientamenti ministeriali in fatto di valutazione delle scuole e dei docenti ci siamo espressi anche lo scorso settembre a commento di un intervento sul “Corriere della Sera” di Ròger Abràvanel, consulente di Mariastella Gelmini per la qualità e il merito. La successiva presentazione del progetto del Ministro, anche se solo nelle linee generali, ci ha confermato nella convinzione – ma è semplice buonsenso - che non si tratta solo di decidere se valutare o no, come semplicisticamente vanno affermando alcuni improvvisati esperti di scuola, ma di come farlo, tanto per evitare che il rimedio sia peggiore del male. Torna su questo tema Giorgio Israel sul “Giornale”, ragionevolmente scettico sull’attendibilità e la validità dei test e favorevole invece a un sistema di ispezioni.
Peraltro, uno dei punti dolenti dell'intera questione è che né a destra né a sinistra ci si decide ad affrontare, come logica priorità, il problema dell’esistenza di un certo numero di dirigenti e di docenti che sono semplicemente inadeguati al loro compito. Che sia per incapacità (il caso umanamente più delicato) o per totale assenza di etica professionale, cambia poco. Si sa che non si è mai abbastanza circostanziati quando si tocca un tabù; quindi ripetiamo che la maggior parte degli insegnanti e (forse) anche dei dirigenti si merita almeno la sufficienza (ma spesso molto di più). E tuttavia il problema esiste, mentre gli strumenti per evitare che i suddetti continuino a fare danni sono ben pochi. Lo sanno benissimo i prèsidi seri, quasi sempre costretti a issare bandiera bianca dopo aver sbattuto la testa contro la muraglia di normative e di sentenze costruita in questi ultimi decenni a difesa anche degli indifendibili e ai danni della credibilità e della qualità della scuola.
Un altro aspetto del problema è l’endemica fuga dalle responsabilità che si verifica praticamente in tutti i settori della società. In altre parole, anche quando esistono poteri e strumenti adeguati, ci si sottrae in ogni modo ai propri doveri (e, com’è noto, anche molti genitori sono infettati da qualcuno dei molteplici virus che spingono all’indulgenza e alla deresponsabilizzazione). Va senz’altro letto in proposito l’editoriale di Tullio Gregory sul “Corriere della Sera”, Il responsabile che non c’è mai, che nell’interno è intitolato Il valore perduto della responsabilità.

martedì 21 dicembre 2010

LA TIGRE E LA NEVE

di Valerio Vagnoli


La neve di questi giorni, come sempre accade, ha trasformato la città. Libera dal traffico e immersa nel silenzio, essa paradossalmente è tornata a vivere. In giro poche persone, ma quasi tutte allegre, di quella allegria che nessuno meglio di Leopardi ha saputo spiegare, e che è destinata purtroppo a svanire insieme allo sciogliersi della prima neve fresca. Leggi tutto.

venerdì 17 dicembre 2010

CERCANSI ADULTI PER SERIO CONFRONTO CON NUOVE GENERAZIONI

Gennaro Lubrano Di Diego, docente napoletano di filosofia e attivo blogger sui problemi della scuola, analizza il rapporto tra "giovani manifestanti"e (molti) adulti. Di questi ultimi mette in evidenza l'inerzia o addirittura il compiacimento intonato a un nostalgico "come eravamo". Leggi.

Sulla tendenza di non pochi educatori a fare gli amici o i fratelli maggiori dei figli, è da leggere l'efficace "Buongiorno" di Massimo Gramellini sulla "Stampa" di oggi.

venerdì 10 dicembre 2010

QUEI PASSATISTI DI SHANGHAI IN TESTA ALLE CLASSIFICHE OCSE-PISA

Quando nel marzo 2008 fu presentato l’appello bipartisan “Scuola: un partito del merito e della responsabilità”, promotori e firmatari[1] furono bollati come “laudatores temporis acti” dall’ex ministro Berlinguer, mentre Andrea Ranieri, allora responsabile scuola del PD, dichiarò: “Ben vengano gli appelli al merito e alla responsabilità, purché non fatti con la testa rivolta all’indietro” (peccato, però, che quelli voltati dalla parte giusta non ne avessero mai fatto parola). Anche se negli ultimi anni le ragioni di una scuola più seria e rigorosa hanno indubbiamente avuto più ascolto nell’opinione pubblica, è ancora forte - e abbastanza trasversale - l’idea che tutto si risolva con una didattica più “moderna” e coinvolgente, largamente “laboratoriale”, che si ricordi di avere di fronte dei “nativi digitali” e via discorrendo. Contro gli ormai numerosi e documentati richiami degli psicologi ai danni arrecati dalla mancanza di fermezza (a casa e a scuola, ma anche nella società nel suo insieme), si continua a vedere l’ombra dell’autoritarismo perfino nel richiamo al rispetto delle regole; e non parliamo del sistematico rifiuto della sanzione in nome del “dialogo”.
Tuttavia i dati dell’indagine Ocse-Pisa del 2009 sembrano smentire ogni facile ricetta pedagogica e confermare invece la necessità di una scuola più esigente sia sul piano dell’impegno e dei risultati che su quello del comportamento. Nel novero delle nazioni più virtuose figurano infatti Cina (Shanghai e Hong Kong), Corea, Giappone, Singapore. E non solo perché dedicano da anni grandi risorse all’istruzione, ma anche perché nelle aule di quei paesi, come scrive Federico Rampini in uno dei suoi libri, “regnano la disciplina, il rigore, il rispetto dell'autorità, la venerazione del sapere”[2].
Il “Corriere della Sera” di ieri dedica un servizio al “primo della classe”, il sistema scolastico di Shanghai, sottolineando la perdurante influenza del confucianesimo. Forse si tratta di un “Made in China” che conviene, se non importare pari pari, quanto meno studiare attentamente.
Sullo stesso quotidiano, Giovanni Belardelli avverte che proprio in molti “moderni” studenti “digitali” si sta atrofizzando la capacità di ragionare.

GR

[1] In ordine di adesione: Mario PIRANI, Giovanni BELARDELLI, Giulio FERRONI, Ernesto GALLI DELLA LOGGIA, Giorgio ISRAEL, Lucio RUSSO, Sergio GIVONE, Salvatore VECA, Sebastiano VASSALLI, Giorgio DE RIENZO, Aldo SCHIAVONE, Gian Luigi BECCARIA, Giovanni SARTORI, Remo BODEI, Piero CRAVERI, Giorgio ALLULLI.

[2] da Centomila punture di spillo di Federico Rampini e Carlo De Benedetti

lunedì 29 novembre 2010

URGE UNA PEDAGOGIA DELL'ATTENZIONE

Molti allievi, a tutti i livelli dell'istruzione pubblica, denunciano difficoltà più o meno accentuate nell'ascolto e nella concentrazione in genere. Del problema si parla da molti anni. Se si chiede a un insegnante quale sia attualmente il maggiore ostacolo all'apprendimento, molto probabilmente comincerà con questo.
Le spiegazioni più comuni sono l'eccessiva sollecitazione sensoriale, la troppa tv, la scarsa abitudine alla fatica e all'impegno, un'educazione poco esigente a scuola e in famiglia. Naturalmente c'è chi propone come panacea la "didattica laboratoriale". Ma se la scuola attiva ha ancora molto da dire in proposito soprattutto per il primo ciclo, è pur vero che la capacità di seguire un discorso (magari prendendo appunti) e di studiare per tutto il tempo necessario deve essere comunque coltivata per tempo, anche se gradatamente.
È indispensabile quindi definire e diffondere una "pedagogia dell'attenzione" - fondata su ricerche e studi, ma anche sulle esperienze positive degli insegnanti - che supporti con indicazioni adeguate sia la scuola che le famiglie nel promuovere l'attenzione e la concentrazione nei bambini. Sarà un contributo quanto mai prezioso non solo per il loro successo negli studi, ma anche per la loro formazione complessiva.
A questo tema Francesco Alberoni dedica oggi una riflessione nella sua rubrica Pubblico&Privato sul "Corriere della sera".

(Giorgio Ragazzini)

giovedì 25 novembre 2010

CODICE PATERNO E PRINCIPIO DI REALTÀ

In un articolo sul “Corriere della Sera” (I “no” che i padri devono saper dire), Paolo Di Stefano torna sulla crisi della figura paterna, che non è iniziata certo ai giorni nostri, dato che già nel 1963 la preannunciava lo psicoanalista Alexander Mitscherlich in Verso una società senza padre. La questione non è però confinata tra le mura domestiche. Si tratta della necessaria presenza nella società del principio (o codice) paterno accanto, e non contro, a quello materno, altrettanto necessario. Sono quindi in causa tutti gli altri ruoli educativi e gli insegnanti in particolare, il modo in cui la collettività nel suo complesso pensa alle nuove generazioni, la legalità come cardine del vivere civile.
Nella scuola domina largamente il codice materno, legato alla protezione e all’accudimento. E questo solo in parte per la netta prevalenza numerica delle donne, dato che, come ricorda Di Stefano, esistono per l’appunto molti “mammi” e non poche donne “con i pantaloni” (si diceva un tempo).
Il problema ricorrente delle occupazioni è stato quasi sempre risolto - o meglio accantonato - in modo “materno”: comprensione, indulgenza, larvata o aperta complicità, strizzatine d’occhio. Ma per crescere, specie a una certa età, si ha bisogno anche - e sempre più - del padre, anche dello scontro con adulti che il conflitto generazionale lo sostengano con fermezza ed equilibrio, senza inutili asprezze, ma senza rifuggire all'occorrenza dalla sanzione, come possono fare un insegnante o un preside consapevolmente "paterni". Ci si oppone, ci si differenzia, ci si definisce, si sperimenta la responsabilità. Magari utilizzando creativamente una varietà di modi, invece di ripetere all’infinito lo stesso copione, come nel rassicurante mondo infantile. Lo sottolinea molto efficacemente uno dei commenti alla nota precedente, firmato da Enio:

I nostri ragazzi liceali avranno mezzi legali per manifestare il loro pensiero e far conoscere il loro dissenso su qualunque tema talenti loro? A iosa! Hanno i blog, i gruppi di discussione, l’assemblea di classe mensile, quella di istituto; possono diffondere volantini, comunicati alla stampa, petizioni al Parlamento, al Governo, al Presidente della Repubblica. Possono chiedere supplementi di studio ai professori di storia, di filosofia, di lettere. Possono stendere testi, manifesti tazebao, pamphlet, aprire siti, costruire reti on line, manifestare e tenere cortei in forma autorizzata al di fuori dell’orario di lezione. Troppo facile. Bisogna invece ripetere ogni anno stancamente il rito dell’occupazione della propria scuola, prendersi un periodo sabbatico dalle lezioni, perché, sia chiaro, studiare affatica. Si diventa pallidi e assorti... Meglio bivaccarci nella scuola, organizzando goliardate, talvolta innocue, altre volte dannose. [...] L’indulgenza di mamma e papà è scontata: sono ragazzi, è un rito di iniziazione all’età adulta…

L’iniziazione, invece, era un incontro non più protetto con la realtà adulta: impegno, fatica, rischio, scelta consapevole, anche sofferenza (i riti di passaggio richiedevano preparazione, coraggio, spesso stoicismo). E a fare i conti con la realtà invita i giovani lo psicanalista Claudio Risé in un intervento sul “Mattino”. Non per caso l’autore è un teorico della rivalutazione del padre (Il padre assente inaccettabile, Il mestiere di padre). Invece di inseguire a tutti i costi il mito della laurea, spesso foriero di disoccupazione prolungata, bisogna valorizzare l’elasticità e la capacità di adattamento della mente giovanile, prendendo in considerazione altre vie per realizzarsi, per esempio l’artigianato, “storicamente importantissimo per la civiltà italiana e dotato di grandi possibilità per il futuro”.

GR

lunedì 22 novembre 2010

CASO “MICHELANGELO”: LA PRESUNTA ONNIPOTENZA DEL “DIALOGO”

In una nota su questo blog del 21 ottobre scorso (Occupazioni: al "Michelangelo" di Firenze un preside fa il suo mestiere) commentavamo la decisione del Dirigente di un liceo classico fiorentino di denunciare una ventina di studenti responsabili di effrazione, danneggiamento e furto all’interno dell’edificio scolastico e informavamo di aver diffuso un comunicato stampa di sostegno al preside, professor Primerano. Se ne riparla in questi giorni sulle cronache locali a partire da un corteo studentesco del 17 scorso, dal quale, durante una sosta davanti al “Michelangelo”, sono stati lanciati fischi e insulti all’indirizzo del dirigente, mentre sui muri venivano incollati volantini e scritti epiteti come “boia” e “fascista”.
L’interessato, in un intervento su “La Nazione” di venerdì scorso, si esprime severamente nei confronti di chi riveste responsabilità politiche: “Mi chiedo, di fronte a episodi di palese violazione delle più elementari norme di civiltà, dove è andata a finire quella politica che si riempie la bocca della sacra parola ‘legalità’ ed alla prima occasione utile fa finta di dimenticarsene e si nasconde prudentemente”.
La reazione dei tre assessori all’istruzione (regionale, provinciale e comunale) è sostanzialmente identica e consiste nell’esprimergli inizialmente “piena solidarietà” per aggiungere subito dopo che ha sbagliato a scegliere la linea dura. Stella Targetti (Regione): “Per quanto riguarda la denuncia, però, trovo che il muro contro muro non paghi. È una questione di opportunità, sarebbe stato preferibile un dialogo coi ragazzi, molti istituti hanno visto autogestioni in cui si è vista la partecipazione dei docenti. Il rapporto autoritario non funziona più, né in famiglia, né a scuola”. Giovanni Di Fede (Provincia): “Il nostro ruolo è un altro, è quello di educatori che devono dialogare con i ragazzi... La denuncia equivale a lavarsene le mani delegando ad altre autorità l’intervento e rinunciando al nostro ruolo che impone un dialogo anche conflittuale con gli studenti, insomma con i ragazzi dobbiamo vedercela noi, la denuncia è una strada sbrigativa”. Rosa Maria Di Giorgi (Comune), in una lettera pubblicata ieri sul “Corriere Fiorentino”, va ancora oltre: nelle occupazioni non c’è in fondo niente di male, quasi ovunque si è trovato un modus vivendi, chi vuol fare lezione fa lezione, chi vuole partecipare a incontri di approfondimento con ospiti esterni può farlo. “Si sa, all’inizio dell’anno scolastico è così da tanto tempo”. Al Michelangelo qualche studente decide di alzare il tiro e allora “il preside decide, nella sua autonomia e in perfetta solitudine, di denunciare alcuni di quei ragazzi”. Riguardo ai quali l’assessore si chiede: “Che percezione avranno delle istituzioni se nel loro primo impatto con esse il segnale è quello della frattura, dell’espulsione, del muro contro muro?”
Vale la pena di riportare la risposta del direttore del “Corriere Fiorentino”, Paolo Ermini:
Frattura, espulsione, muro contro muro. L’assessore De Giorgi usa espressioni forti per descrivere la situazione che si è creata al Michelangelo. Una drammatizzazione che serve a rendere più incalzante la richiesta di dialogo. L’intento è da apprezzare, ma a una condizione: gli studenti (con i loro genitori e anche con un po’ di insegnanti), devono capire che in un paese libero e democratico come il nostro la legalità è una e una sola, e che è fatta apposta per non essere violata. Anche nell’interesse di ciascuno di loro, ora e quando saranno più in là con gli anni, perché è l’unica arma per difendere i diritti di tutti, soprattutto dei più deboli.
C’è solo da aggiungere che questo generico appello al “dialogo” è fondato su una serie di presupposti sbagliati o indimostrati: che il dialogo sia possibile sempre e comunque, con tutti, anche se i politici per primi sanno per esperienza che non è così. Che nel caso del “Michelangelo” non ci sia stato o non sia stato tentato. Che la sanzione (nei casi gravi anche penale) non sia uno degli strumenti della relazione educativa, secondo il luogo comune per il quale “ci vuole l’educazione, non la punizione”.
Infine, il “dialogo” senza una progressiva responsabilizzazione dei giovani da parte di adulti capaci di comprensione, ma anche di fermezza, non può che risolversi in cedimento, indulgenza e inconsistenza sul piano etico, oltre a far torto ai tanti ragazzi che si comportano correttamente.
La verità è che in tema di occupazioni e manifestazioni studentesche è in vigore da decenni una “costituzione materiale” a cui troppi adulti si sono quanto meno rassegnati e che ha reso “normali” una serie di comportamenti inaccettabili.

GR

sabato 13 novembre 2010

SCUOLA PUBBLICA: UN DECLINO IRREVERSIBILE?

È di poche settimane fa un articolo di fondo di Ernesto Galli della Loggia a proposito della crescita, in Italia, delle scuole private di qualità (parificate e non). Premesso che ritengo le scuole private, soprattutto se di qualità, utili e stimolanti per il sistema statale, più di un segnale mi porta a pensare che ci si trovi alla vigilia di una vera e propria svolta nel sistema scolastico statale. Vedo cioè il rischio, epocale e di lunga durata, che la scuola statale declini in termini di qualità, avvantaggiando quelle private che, rifiutando di limitarsi alla funzione di diplomifici, punteranno ad intercettare i figli delle famiglie benestanti, che avranno così dei punti di riferimento qualitativamente di classe e in quanto tali destinati a creare solchi profondi tra chi frequenterà il sistema statale e chi quello privato di qualità. Insomma, il rischio è che la scuola italiana, anche sotto questo aspetto, si vada americanizzando. I segnali ci sono e sono da tempo evidentissimi. Alcuni, volendo esibire un certo impegno politico, paventano il rischio della deriva in virtù delle colpe della Gelmini, anziché del disastro che quotidianamente e da anni incancrenisce la scuola e che ha ben altri responsabili che non l’ultimo ministro dell’istruzione. Innanzitutto vi è l’assoluta impossibilità, oramai da moltissimo tempo, di porre un filtro a quei docenti (pochi, ma molto dannosi) che entrano nelle scuole senza alcun rischio di venirne cacciati per incapacità, neghittosità e, talvolta, comportamenti di inaudita gravità. Peraltro, come ho scritto più volte, docenti del genere finiscono col colpire in modo irreversibile i ragazzi delle famiglie più svantaggiate, a differenza di quelli che hanno mezzi economici o genitori dotati di una certa preparazione intellettuale. Deve essere ben chiaro a tutti che nel sistema della scuola statale è assolutamente impossibile liberare i ragazzi dalla presenza di simili docenti. Ai sindacati fa comodo sbandierare i pericoli per i dipendenti derivati dal decreto Brunetta in fatto di tutele. La verità è che i docenti e il personale ATA godono, rispetto a stipendi bassi e bassissimi, del diritto di inamovibilità e non esiste una pagina di una qualsiasi rivista sindacale in cui si parli della necessità di garantire i ragazzi e le loro famiglie da docenti del genere.Vi è inoltre, e anche in questo caso da anni, l’impossibilità di chiedere che i docenti si aggiornino regolarmente (lo fanno quelli che non rinunciano a sentirsi e ad essere intellettuali e appassionati alla loro professione), come conviene a chi è chiamato a far fronte a novità metodologiche e culturali legate al mondo giovanile, che ha tempi di cambiamento sempre più rapidi. Allo stesso modo, manca ancora oggi, a proposito degli studenti, una seria riflessione sul merito, che meriterebbe uno sforzo (anche economico) pari a quello dedicato ai ragazzi da recuperare e motivare. Se la scuola pubblica perde la possibilità di distinguere e premiare chi merita, perde ogni valenza civile ed etica e diventa inutile se non ad allevare giovani in attesa “di giudizio”.Da anni, le occupazioni, a volte stimolate da esponenti politici a dir poco irresponsabili, contribuiscono a rendere l’immagine della scuola statale, come una sorta di palestra della illegalità, e in quanto tale non può che perdere progressivamente quella credibilità senza la quale, come scritto sopra, qualsiasi scuola è inutile. Talvolta si ha la sensazione che la scuola sia prigioniera di una sorta di cronica assuefazione alla quotidianità, alla necessità, cioè, di far trascorre il tempo a ragazze e ragazzi in attesa che essi possano finalmente fare - alla fine della scuola - una scelta di vita seria, coinvolgente e consapevole. Stipendi bassi, tagli indiscriminati (mai troppi, però, quelli per i tanti inutili progetti), ruolo sociale dei docenti in progressiva caduta, possono legittimare l’altrettanto diffusa perdita di passione per il loro lavoro?In queste prime settimane, infine, il susseguirsi di assemblee sindacali e scioperi dei docenti, seppure con l’intento di opporsi ai drastici tagli al bilancio dell’Istruzione,contribuisce a rendere meno attrattiva la scuola pubblica.Quest’anno ho la reggenza in un istituto che comprende insieme alla scuola media di primo grado anche la scuola dell’infanzia e quella primaria. Ho ben chiare le preoccupazioni di molti immigrati e di altrettanti italiani che non sanno se potranno far entrare in classe i loro bambini perché forse l’insegnante ha scioperato; patemi, questi, che difficilmente saranno addebitati al ministro dell’istruzione...Non so se in futuro non pochi di questi, potendoselo permettere, continueranno ad affidarsi e fidarsi della scuola pubblica, di questa scuola pubblica che pur continuando ad avere ancora pregi indiscutibili, e proprio per questo, non può permettersi di non riflettere sul rischio di deriva verso la quale mi sembra indirizzata.

V.V.

venerdì 12 novembre 2010

LA FRANTUMAZIONE DELLA SCUOLA NELL'ERA DELL'AUTONOMIA

Scardinamento della cornice culturale unitaria del sistema scolastico, sostituzione dei programmi con le indicazioni nazionali, venir meno di una guida e di una direzione chiaramente individuate, trionfo del localismo, accentuazione delle disparità territoriali in termini di opportunità, conseguente indebolimento dei saperi di base. Questi i principali nodi dell’analisi di Adolfo Scotto di Luzio pubblicata sul “Riformista”. Leggi

ANCORA SUI MESTIERI CHE POCHI VOGLIONO FARE

Su “LiberoMercato” Giuseppe Bertagna torna sul tema - strettamente connesso a quello dell’apprendistato e della formazione professionale - dei mestieri che nessuno vuole fare (salvo gli stranieri). Anche se muove da una liquidazione senza appello e senza residui dell’attuale struttura scolastica, che non è qui il caso di discutere, ma che personalmente non condivido, Bertagna accumula un’impressionante serie di dati di fatto sullo scollamento tra formazione dei giovani e mercato del lavoro e ci costringe a riflettere su più di un paradosso. Leggi (GR)

IMPARA L'ARTE CON L'APPRENDISTATO

Lo scorso agosto ebbi occasione di scambiare qualche battuta con un ragazzo che faceva il cameriere in un agriturismo dolomitico. Disse di frequentare un istituto tecnico e che per raggiungerlo si deve alzare molto presto, dato che abita in campagna. Quanto alle vacanze, ci disse come se fosse un’assoluta ovvietà: “Che ci sto a fare tre mesi a casa senza far niente? Così vengo qui a lavorare”.
Mi è tornato in mente questo ragazzo così poco bamboccione nel leggere un articolo sul “Messaggero” di Antonio Lombardi, presidente dell’Alleanza Lavoro, l’associazione di categoria delle Agenzie per il Lavoro, che rievoca la sua personale esperienza di vacanze spese nell’imparare un mestiere (come raccomandano due detti della saggezza popolare: “L’ozio è il padre dei vizi” e “Impara l’arte e mettila da parte). Secondo Lombardi, la riforma dell’apprendistato, purtroppo molto tardiva, è una grande occasione per rilanciare uno strumento di grande utilità formativa per le nuove generazioni. E dovrebbe essere la scuola stessa a "reclamizzarne" la rinascita. Leggi.

mercoledì 10 novembre 2010

UNA VITA DIFFICILE: IL CAMMINO A RITROSO DI “CITTADINANZA E COSTITUZIONE”

Il 1° agosto 2008, un comunicato del Ministro dell’Istruzione annunciava: “Dal prossimo anno scolastico – nel primo e nel secondo ciclo di istruzione – sarà introdotta la disciplina 'Cittadinanza e Costituzione', che sarà oggetto di specifica valutazione. Sono previste 33 ore annuali di insegnamento”.
Pur non essendo chiaro in che cosa si differenziasse dalla vecchia Educazione civica (o forse proprio perché le somigliava molto), l’annuncio ebbe un’accoglienza generalmente favorevole, anche per l’impegno a riservarle un’ora la settimana. Dopo di che gli insegnanti, in attesa di maggiori dettagli, ci hanno potuto capire ben poco. I docenti di lettere della media si sono visti comparire, invece dell’ora in questione, un’inedita ora supplementare di “Approfondimento di Italiano”, la cui utilizzazione veniva naturalmente delegata alle singole scuole, con il relativo corteo di riunioni e discussioni. Dato che nel frattempo le ore di lettere per classe erano scese da 11 a 9, in molti casi si è deciso, prendendo sul serio gli annunci ministeriali, di impiegare questa decima ora appunto per “Cittadinanza e Costituzione”, in modo da non sottrarre tempo a storia o a italiano.
Una circolare del 27 ottobre scorso, però, precisa che questa materia si integrerà nell’area storico-geografica e non avrà una sua ora, né una valutazione autonoma, ma influirà su quella di storia e geografia e - non si capisce in che modo - “nella definizione del voto di comportamento” (forse chi sa a memoria la Costituzione potrà evitare il 5 in condotta...).
In sostanza si torna al punto di partenza, quando l’educazione civica era accorpata a storia. Ma con la diminuzione delle ore di lettere e di storia sarà quasi impossibile far quadrare i conti. Quanto poi al contemporaneo rilancio della dimensione “trasversale” di questa semi-disciplina (cioè il suo riguardare anche le altre materie) accanto a quella più specificamente affidata ai docenti di lettere, l’esperienza ha dimostrato ampiamente che si tratta di parole al vento, a meno che non ci si riferisca ai compiti educativi che ogni insegnante deve assolvere in quanto tale; ma allora è del tutto superfluo questo ulteriore inquadramento concettuale (Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem...).
In definitiva, su questa base non c’è molto da illudersi che “Cittadinanza e Costituzione” conduca un’esistenza meno stentata della vecchia “Educazione civica”. Di cambiato, sembra proprio che sia rimasto soltanto il nome. (GR)

L’articolo di “Repubblica”.
La circolare n. 86 del 27 ottobre 2010.

lunedì 25 ottobre 2010

LA FINE DEI MESTIERI NELL’ITALIA DEI “CALL CENTER”

Ieri, gran parte dei quotidiani dedicavano ampio spazio a quanto Confartigianato denuncia: è difficilissimo trovare dei giovani disposti a fare una serie di mestieri. I ragazzi italiani sono quasi tutti intenti a realizzare il sogno dei loro genitori, un diploma liceale, perché il liceo, si sa, o almeno così pensavano e pensano tanti illuminati pedagogisti e politici italiani, è la scuola dei ricchi, quindi quella che ha maggior valore, ed è quella che insieme alla “sistemazione” di prestigio, dovrebbe garantire la vera cultura, quella che finalmente mette sullo stesso piano i pierini e luigini italiani. Peccato poi che la storia vada diversamente e che troppi laureati siano in cerca di occupazione.
Proprio coloro che si sono tanto appassionati alle “intelligenze multiple” si sono spesso accaniti nel volere a tutti i costi un sistema formativo sostanzialmente “licealizzato” (si veda l’ampio schieramento a favore del biennio unico alle superiori). Magari sono le stesse persone che pontificavano in convegni e corsi di aggiornamento su quanto fosse importante attuare un’istruzione quanto più possibilmente individualizzata e rispettosa dell’intelligenza e della personalità dell’individuo.
Così, oggi, gran parte di quelle ragazze e ragazzi sono fuori dal mercato del lavoro o passano, nel migliore dei casi, da un part-time all’altro, bramando qualche ora di lavoro nei call center o in una supplenza a chissà quanti chilometri da casa (quella dei loro genitori, ovviamente). Ai campioni della pedagogia e della politica scolastica “progressista” andrebbe ricordato che così non viene garantito il diritto ad essere almeno un po’ felici ed appagati dalla vita. Sfido chiunque ad esserlo se a trenta o quarant’anni si trova in tasca una laurea inutile e un certificato di disoccupazione.
Un’ultima riflessione. Ovviamente i figli dei benestanti, coloro che possono contare su genitori professionisti, manager, dirigenti, eccetera, continueranno ad essere i soliti pierini. Infatti in un sistema in cui il merito non conta quasi nulla, la mobilità sociale rimane rigidamente orizzontale, esattamente come vogliono i tanti interessati alla moltiplicazione delle sedi e facoltà universitarie e ostili, nello stesso tempo, alla formazione professionale. Meglio disoccupati e infelici a trent’anni e oltre, e destinati ad un lavoro di ripiego, ma “acculturati” e illusi da una formazione liceale e universitaria senza alcun sbocco occupazionale. Esattamente come accadeva nelle Filippine di Marcos negli anni settanta e nei primi anni ottanta. Auguriamo loro di non subire, alla fine, il destino di tanti giovani laureati che negli anni ottanta abbandonarono le Filippine per cercare lavoro in ogni parte del mondo. (Valerio Vagnoli)

Il Comunicato della Confartigianato
L’articolo di Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera
Il commento di Oscar Giannino sul Messaggero

giovedì 21 ottobre 2010

OCCUPAZIONI: AL "MICHELANGELO" DI FIRENZE UN PRESIDE FA IL SUO MESTIERE

Questo il comunicato diramato ieri dal Preside del Liceo classico "Michelangelo" di Firenze:

"Si comunica che anche questa mattina l'ingresso a scuola del personale docente ed ATA e degli studenti è stato impedito in quanto la scuola era sbarrata dall'interno con mobili e catene. Comunque il sottoscritto ed il Collaboratore scolastico Francesco Amberti sono riusciti ugualmente ad entrare all'interno della scuola. Sono stati rimossi gli ostacoli alle porte di accesso consentendo l'ingresso di personale e studenti. Alcune porte chiuse con grosse catene hanno richiesto l’intervento di un fabbro.
Ovviamente sono state forzate le porte interne della scuola e messe a soqquadro aule ed uffici a partire dalla Presidenza. Tutte le luci della scuola sono state accese nella notte con evidente aggravio di spese. Il muro sotto la scala di sicurezza nel giardino di Repubblica , appena imbiancato dai docenti è stato imbrattato di scritte gravemente offensive nei confronti del sottoscritto e della Polizia. Ho fatto presente agli occupanti che avrei proceduto con le denuncie per interruzione di pubblico servizio, danneggiamenti e furto con scasso. Uno studente in modo arrogante mi ha chiesto il perché del furto con scasso:ho riferito del furto delle chiavi e dei soldi in Segreteria e lo studente si è permesso di dirmi testualmente che sono un buffone ed un bugiardo. Richiesto di identificarsi si è rifiutato di comunicarmi le generalità e la classe: è ovvio che l’identificazione è solo rimandata di qualche giorno.
E’ chiaro che quando la protesta sfocia in atti delinquenziali non è possibile trovare nessun tipo di giustificazione e le denunce sono la logica conseguenza dei comportamenti.
A questo proposito sono assolutamente meravigliato della quasi totale indifferenza delle famiglie degli occupanti che evidentemente concordano non solo con la prova di forza ma anche con le conseguenze che essa comporta. Vedremo se concordano anche sulle denunce che riceveranno i loro figli.

Il Dirigente scolastico
Massimo Primerano"


“La Nazione” ne riferisce in un articolo di Lisa Ciardi.

Oggi pomeriggio abbiamo inviato ai giornali il seguente comunicato stampa:

Il Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità esprime piena solidarietà al preside del liceo “Michelangelo” Massimo Primerano per aver deciso di difendere il principio di legalità che è alla base della convivenza civile. Lo ha fatto nella quasi completa latitanza degli adulti e delle istituzioni; e solo così facendo poteva mettersi dalla parte dell’interesse educativo degli allievi, la cui formazione civica dipende molto di più dall’esempio e dall’assunzione di responsabilità di chi li guida, che non da tante belle parole sull’educazione alla cittadinanza.
Per questo auspichiamo che gli giungano numerose le testimonianze di consenso e di apprezzamento.

venerdì 15 ottobre 2010

ZIBALDONE

UN’INSEGNANTE SI AUTODENUNCIA: “HO PROMOSSO DEI SOMARI”
È senz’altro vero che la serietà della scuola non si esaurisce nel bocciare chi non merita; ma ancor meno ha a che fare con la pratica del condono tramite falso in atto pubblico negli scrutini di fine anno. Leggi.

UN ESEMPIO DI CONDONO SCOLASTICO: IL COLLEGIO DELIBERA IL “6 ECONOMICO”
Non ci sono soldi per i corsi? Promuoviamo tutti. Leggi.

C’È SPERANZA SE QUESTO ACCADE AL “MACHIAVELLI”
Seicento studenti di un liceo fiorentino firmano per far cessare l’occupazione. La cosa è notevole, perché certo non è semplice per gli studenti opporsi a questa annuale "sacra rappresentazione" (come l'ha definita una preside) e rinunciare alle sue convenienze, non ultima il protagonismo mediatico che giornali e televisione assicurano, quasi sempre in modo acritico. Leggi.

UN ONESTO RIPENSAMENTO SULLE COMPETENZE
Dopo una presa di posizione molto critica sulle nuove indicazioni nazionali per i programmi liceali (vedi ilsussidiario.net del 7 aprile 2010), visti come antiquati nel loro accentuare l’importanza dei contenuti, Claudio Gentili, responsabile della Confindustria per l’ “Education” torna sulla diatriba “conoscenze versus competenze” in modo molto più problematico. Leggi.

GR

martedì 28 settembre 2010

APPRENDISTATO: UNA CARTA CONTRO L’ABBANDONO SCOLASTICO?

E se in un “apprendistato formativo” molti ragazzi che oggi abbandonano la scuola dopo le medie ritrovassero il piacere di apprendere e magari scoprissero dei talenti da coltivare? Sospendiamo il giudizio, in laica attesa di verificare i risultati dell’intesa in materia tra Regione Lombardia e Ministero dell’Istruzione, di cui riferisce tra gli altri “Il Sole24Ore”[1]. Altrettanto realisticamente si dovrebbe partire dal rifiuto della scuola a cui approdano molti studenti per le più varie ragioni. Invitato nei giorni scorsi, in rappresentanza del nostro gruppo, al seminario nazionale del PD “La scuola alla riscossa”, Valerio Vagnoli ha accennato all’apprendistato in un intervento[2] dedicato soprattutto alla formazione professionale: “Qualcuno di voi stamani ha detto che trova aberrante che un ragazzo a quindici anni faccia dell’apprendistato. Se questo apprendistato ha, ovviamente, una strutturazione molto formativa, io trovo aberrante che un ragazzo a quindici anni sia in mezzo alla strada o sia nei bar o a casa a non fare nulla”.

(GR)

[1] Sullo stesso giornale si può leggere anche l’approfondimento di Michele Tiraboschi, consigliere del ministro del Lavoro
[2] Per trovare i singoli interventi, bisogna scorrere l’elenco sulla destra.

domenica 26 settembre 2010

UN “PIANO MARSHALL” PER LA SCUOLA ITALIANA

In un intervento video sul sito web dell’Istituto Treccani, Rosario Salamone, Preside del Liceo Classico Visconti di Roma, parla della riforma della scuola, affermando che è necessario l’impegno di tutti per attuarla, anche se non ha “il carattere della perfezione” e può certamente essere migliorata. Ma perché la riforma possa andare a buon fine è indispensabile uno straordinario sforzo finanziario, un vero e proprio “Piano Marshall” per la scuola italiana, che non solo la classe politica, ma anche la società civile senta la responsabilità di sostenere.
Non si può non sottoscrivere le parole del Preside Salamone, nonostante la crisi economica, se è vero che proprio per uscirne – non solo dalla fase più acuta, ma anche dal cronico ritardo del nostro sviluppo rispetto a molti paesi europei – tutti gli economisti indicano come necessari massicci investimenti nell’istruzione e nella formazione. A chi domanda con quali risorse si può solo rispondere che occorre trovarle. Purché, ovviamente, non siano disperse in attività futili e dispendiose come troppo spesso è avvenuto in passato, ma siano utilizzate in modo intelligente e mirato alla soluzione dei grandi problemi della scuola italiana. Prima di tutto l’edilizia scolastica, i laboratori, le strumentazioni didattiche, un terreno dove il confronto con molti paesi europei risulta mortificante; un radicale ripensamento del sistema di istruzione e formazione professionale; un serio impegno per rivalutare la professione docente, anche con la creazione di nuovi ruoli, e un aggiornamento centrato sulla libertà metodologica e la valorizzazione delle esperienze sul campo. (A.R.)

lunedì 20 settembre 2010

LA SCUOLA ITALIANA E I BRUTTI ANATROCCOLI

Lo psicoterapeuta Claudio Risé torna in modo convincente sul tema dei talenti non valorizzati dalla scuola, che, diventata di massa, ha dedicato sempre più energìe al recupero dei ragazzi in difficoltà. “Si trascurò però il fatto che il bimbo in difficoltà lo era spesso (come appariva poi in terapia), proprio perché i suoi specifici talenti, le sue particolari potenzialità non venivano affatto osservate nell’approccio standardizzato della scuola di massa”. Una decisa rivalutazione della formazione professionale (l’autore fa riferimento a un progetto spagnolo), potrebbe far scoprire che molti brutti anatroccoli disadattati diventerebbero cigni se si smettesse di declinare come uniformità l’uguaglianza delle possibilità. Leggi

giovedì 16 settembre 2010

CARO MINISTRO, A FIRENZE SI DICE: “QUANDO CI VA, CI VUOLE”...

Gentile Ministro Gelmini,
nella vicenda di Adro è in gioco il principio cardine della scuola pubblica, cioè la neutralità dello Stato e delle sue istituzioni rispetto a tutte le possibili opzioni politico-ideologiche. Il sindaco sostiene che il "sole delle Alpi" da secoli è un simbolo della zona. Sarà, ma non c’è dubbio che oggi identifica la Lega che l’ha scelto come emblema; ed è questo che conta. Lei, quindi, non dovrebbe a nostro avviso limitarsi a “prendere atto” della spiegazione, pur rimanendo “perplessa”. È necessario dire chiaro e tondo che quei simboli vanno rimossi. Come diciamo a Firenze, “Quando ci va, ci vuole”.
Che nelle scuole si siano visti altri simboli politici è senz’altro vero, anche se la marchiatura partitica dell'edificio rappresenta un unicum. Si ricorderà il fiorire, qualche anno fa, di bandiere della pace non solo nelle scuole, ma sulle facciate di amministrazioni comunali, provinciali e regionali; e anche lì, esattamente come per la scuola di Adro, si imbrogliavano le carte negando che rappresentassero uno schieramento politico, sia pur ampio e variegato, e sostenendo che si trattava, invece, del simbolo “di un’aspirazione universale” e cose del genere. Su questo blog, poi, abbiamo più volte criticato i colleghi che inscenano manifestazioni politiche davanti agli edifici scolastici o al loro interno, con striscioni e cartelli, coinvolgendo per di più anche gli allievi. Ma tutto questo non fa che rendere più evidente e più urgente la necessità di chiarire una volta per sempre che la scuola pubblica è di tutti e tutti ci si devono sentire come a casa propria, quali che siano le loro idee. Con quali argomenti, sennò, ci si potrà opporre in futuro ad altre iniziative dello stesso genere?

Cordialmente,

GdF

lunedì 6 settembre 2010

LA SCUOLA E I PRECARI: UN PROBLEMA INSOLUBILE?

Alla questione dei precari e allo scontro politico sulla scuola dedica una nitida riflessione Giovanni Belardelli sul “Corriere della Sera” di ieri, chiedendosi: “Finirà mai, in Italia, l’Età dei Precari, cioè la stagione lunghissima, e che dura tutt’ora, in cui abbiamo di fatto identificato i problemi della scuola con la questione del collocamento in ruolo dei precari?”
È comprensibile che agli insegnanti in lotta per conquistare un posto stabile faccia gioco convincere l’opinione pubblica che i loro problemi sono tutt’uno con quelli della scuola e che la qualità dell’istruzione si ottiene essenzialmente con più ore di insegnamento, più materie, più cattedre, ma con tutta evidenza così non è. La drammatica condizione di migliaia di insegnanti si deve in larga misura a decenni di convergenze tra la logica corporativa dei sindacati e le politiche assistenzialiste e clientelari di quasi tutti i governi. Piuttosto che fare una seria programmazione del fabbisogno di insegnanti, prevedendo dei rigorosi percorsi di formazione e selezione, si sono periodicamente adottati provvedimenti di sanatoria, talvolta scandalosi, con la giustificazione dello stato di necessità. Ma è necessario riconoscere, scrive Belardelli, che si tratta di un enorme problema sociale che non può essere interamente accollato al sistema scolastico e dovrebbe invece essere affrontato soprattutto con gli strumenti di un moderno e più equo welfare state.

venerdì 3 settembre 2010

ABRAVANEL: “PRIMA DI TUTTO LA QUALITÀ DEI DOCENTI”. GIUSTO, MA...

Quello che conta è la qualità degli insegnanti. Non la dimensione delle classi. Non le ore di insegnamento. Non quanto si spende nella scuola”. Così si esprime, in un articolo sul “Corriere della Sera”, Roger Abravanel, consulente del ministro Gelmini per la qualità e il merito, auspicando che, sulla base di una sistematica valutazione dei docenti, i genitori possano capire quale scuola dà migliori risultati. Espressa certo in forma un po’ provocatoria (più soldi servirebbero, eccome) , la centralità degli insegnanti è una verità nota da tempo alle persone di buon senso, che però ha trovato scarso riscontro nelle politiche degli scorsi decenni. Tuttavia sono necessarie un paio di osservazioni.
1. È tutt’altro che pacificamente acquisita la possibilità di misurare la bravura di un docente in base al rendimento degli allievi, dato che, per quanto si possano tarare i test, entrano in questione molte variabili (spesso extrascolastiche).
2. Ma anche ammettendo che sia così, lo stesso articolo segnala senza volerlo una difficoltà, quando a un certo punto il discorso slitta dalla qualità dei docenti a quella del singolo istituto, quasi si potessero identificare: “Un genitore potrebbe sapere molto di più sulla qualità della scuola se i risultati dei test aggregati venissero resi noti prima del momento dell’iscrizione. Solo così una mamma e un papà italiani potranno capire che forse la scuola media un po’ più lontana da casa è migliore perché i suoi studenti hanno ottimi risultati in italiano e matematica”. La realtà, però, non è così semplice. In quasi tutte le scuole la qualità dei docenti è molto varia. Ci sono spesso sezioni buone e altre sconsigliabili e anche consentendo di esprimere delle preferenze non si potrà mai accontentare tutti. Fino alle superiori, poi, la vicinanza delle scuola ha necessariamente un peso notevole nella scelta di molte famiglie. Non è molto probabile, quindi, che la valutazione dei risultati e la conseguente “concorrenza” tra scuole possa portare a rapidi miglioramenti qualitativi. Anche perché dobbiamo chiederci se è più urgente individuare i migliori fra i docenti o riuscire ad elevarne la qualità media, garantendo alle famiglie insegnanti che siano quanto meno “sufficientemente buoni”. E per far questo è necessario (ripetendo cose già dette più volte):
A. affrontare efficacemente il problema degli insegnanti chiaramente inadeguati sul piano didattico-relazionale o su quello della correttezza professionale, attualmente ipertutelati; e lo stesso Abravanel indica altrove, nell’impossibilità di “allontanare i disastri”, uno dei punti deboli del nostro sistema[1];
B. ripristinare un adeguato controllo sul funzionamento delle scuole (compreso l’andamento di scrutini ed esami), anche attraverso un numero sufficiente di ispettori dotati di poteri adeguati (in Italia ce ne sono 100, contro i 1500 del Regno Unito e i 3000 della Francia);
C. sostenere in modo costante gli insegnanti con tutte le necessarie consulenze (psicologi, logopedisti, assistenti sociali, esperti nell’orientamento, ecc.), invece di pretendere che facciano da soli in base a superficiali infarinature;
D. nell’aggiornamento, valorizzare la professionalità dei docenti. “Ciò significa”, come finalmente si sottolinea nella premessa alle indicazioni nazionali, “favorire la sperimentazione e lo scambio di esperienze metodologiche... e negare diritto di cittadinanza ... a qualunque tentativo di prescrittivismo”. Insomma, insegnanti protagonisti della loro crescita professionale, anziché oggetti passivi, come spesso in passato, di vere e proprie forme di indottrinamento. Naturalmente, nel medio periodo, sarà di fondamentale importanza la messa a regime dei nuovi percorsi di formazione universitaria dei futuri docenti. (GR)

[1] Vedi le diapositive usate nella presentazione del Piano Nazionale Qualità e Merito. Vi si ritrova anche la presunta contrapposizione tra "competenze di vita" e conoscenze: "Migliorare la nostra mente per partecipare con la nostra testa, non insegnarci a memoria i pensieri degli altri", suggerisce la citazione di "Uno sconosciuto formatore americano" .

giovedì 26 agosto 2010

DON MILANI: PER FORTUNA NON FU L'UNICO MAESTRO

di Valerio Vagnoli


Parlando di don Milani bisogna dare per scontato che egli, dal momento della conversione e dal successivo ingresso in seminario, si sentì esclusivamente un uomo di chiesa e che come tale intervenne sui temi che più ebbe a cuore: la scuola e la dignità dei poveri. Di una Chiesa, peraltro, a cui fu sempre obbediente, contrariamente a quanto si possa pensare, perché, come ebbe a dire, “Noi la chiesa non la lasceremo... non possiamo vivere senza i suoi Sacramenti e senza il suo Insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione...”.
Dal punto di vista dottrinale, Don Milani rimase ancorato piuttosto alla Chiesa post- tridentina che non a quella conciliare dei suoi ultimi anni di vita; e chi lo conobbe bene, anche nel privato, credo concordi con me nel ritenere che difficilmente, se non fosse morto prematuramente, avrebbe rinunciato alla tonaca per il più “borghese” clergyman. (Segue su GdF Documenti).

martedì 3 agosto 2010

CENTO E LODE, QUANDO È VERO MERITO?

Il Corriere della Sera anticipa oggi, in due pagine di analisi e commenti, i dati sugli esami di Stato elaborati dal Ministero dell’Istruzione. In particolare l’attenzione del Corriere si è focalizzata sulle statistiche relative ai 100 e lode, come indicatore significativo nel confronto nord/sud, mettendo in evidenza che, su un totale di 4037, la metà (2016) si trova nelle regioni meridionali, il doppio rispetto alle regioni del nord.
Il dato su cui è più corretto ragionare è però quello delle percentuali di 100 e lode sul totale dei diplomati. In un grafico il Corriere riporta i dati regione per regione, evidenziando un quadro senza dubbio più articolato. Al Sud ci sono le due regioni più “munifiche”, la Calabria con 2,1%, seguita dalla Puglia con l’ 1,8%, ma anche una delle più virtuose ( intendendo le più sobrie nell’attribuzione delle lodi ) come la Basilicata, con lo 0,8%, seguita dalla Campania e la Sardegna, entrambe all’ 1%. Nelle regioni del Centro solo la Toscana è sotto il punto (0,9%), mentre Umbria e Marche si attestano su percentuali assai più elevate , rispettivamente 1,6% e 1,4%. Al Nord quasi tutte le regioni si mostrano rigorose, prima fra tutte la Lombardia, leader della classifica nazionale con appena lo 0,5%. Fa eccezione l’Emilia Romagna, con dato dell’ 1,4%, forse da attribuire al temperamento generoso degli emiliani.
Il Corriere non fornisce le percentuali medie relative alle regioni del Nord, del Centro e del Sud, ma è un calcolo che possiamo fare anche noi. Nelle otto regioni del Sud la percentuale media è di circa 1,23%; nella quattro regioni del Centro di circa 1,22%, dunque molto simile; nettamente inferiore invece la media nelle sette regioni del Nord (0,75%).
Il numero delle lodi è certo un dato interessante e l’idea che le percentuali siano inversamente proporzionali alla serietà e all’equilibrio delle valutazioni non è campata per aria, tuttavia da queste poche considerazioni risulta chiaro quanto sarebbe importante per la scuola italiana disporre di analisi molto approfondite e articolate. Il Sud, ad esempio, non è una realtà uniforme, anche stando solo a questi dati. A fronte della misura che dimostra la Basilicata, anche nella percentuale dei 100 (4,6 %, tra le più basse in assoluto in Italia), la Calabria mostra una “generosità” che rimanda alle questioni dell’etica professionale, del merito, della “bontà” e magari degli “aiutini", che umiliano la giustizia. Si pensi solo a un dato riportato dal Corriere, assolutamente impressionante: nei primi 10 istituti italiani per numero di lodi, 7 sono calabresi. Roger Abravanel, in un’intervista nelle stesse pagine del Corriere, nel riproporre la necessità di inserire nell’esame un test nazionale, dice fra le altre cose : «… se non si sa chi siano davvero gli studenti migliori, non si potrà sapere a chi dovrebbero andare le borse di studio. E quindi va a finire che magari un giovane bravo, che ha fatto un liceo serio e ha ricevuto un voto giusto, rimane tagliato fuori.»

lunedì 2 agosto 2010

FORMAZIONE PROFESSIONALE E ARTICOLO 3 DELLA COSTITUZIONE

“Non permetteremo a nessuno di abbandonare l’istruzione nel primo biennio delle superiori”: è una frase risuonata più volte in convegni e documenti in cui si parlava, esaltandolo, del modello toscano relativo all’assolvimento dell’obbligo.
Confesso che l’affermazione sarebbe da brividi, se non conoscessi personalmente la buona fede e la vera passione educativa di alcuni di coloro che la fanno propria. Il mio disappunto nasce non solo dalla constatazione diretta dei danni che una scelta del genere provoca negli studenti (bocciature, abbandoni, frustrazioni, disagi di ogni tipo), ma anche dal ritenere la formazione professionale, contrariamente agli assertori di tali certezze, un percorso di pari dignità e di pari valore formativo ed educativo rispetto a quello dell’istruzione, se non addirittura superiore, se è vero che spesso è in grado di recuperare ragazzi demotivati, perché costretti a percorrere il canale dell’istruzione, mentre avrebbero voluto impegnarsi in una scuola incentrata sul “fare” e veramente rispondente ai loro interessi.
Una conferma a queste mie convinzioni mi sembra provenga dalla stessa Costituzione italiana, che all’art. 3 sancisce il diritto di ciascun cittadino a vedere rimossi tutti gli ostacoli che di fatto “... impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Ciò significa che ciascuno ha il sacrosanto diritto di veder riconosciute e valorizzate le proprie personali predisposizioni, che derivano da un’infinità di fattori, a partire dal proprio passato, dalle tradizioni familiari, dalla condivisione affettiva della prima visione del mondo con i propri coetanei e ovviamente dalla stessa esperienza scolastica.
Il volere a tutti i costi imprigionare un ragazzo per due anni in una struttura che egli disprezza o subisce passivamente, in una età in cui avrebbe invece bisogno di incoraggiamento e di autostima, mi sembra derivare da una sorta di compiaciuta personale convinzione che il futuro è migliore se sarà come lo vogliamo noi, senza curarci affatto del rispetto dovuto ad un ragazzo che vorrebbe finalmente iniziare a determinarlo, questo suo futuro, anche in virtù delle proprie scelte ed attitudini. Una convinzione che non sembra avere neanche molto rispetto per la stessa Costituzione, che sempre all’articolo 3, afferma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, indipendentemente dal lavoro che svolgiamo e dalla diversa cultura che caratterizza ciascuno di noi. Forse, a questo proposito vale la pena di ricordare che la cultura considerata alta non contribuì più di tanto a far prender “coscienza” politica agli intellettuali italiani durante il fascismo, se solo 12 fra questi si rifiutarono di giurare fedeltà al regime scegliendo l’esilio insieme a migliaia di operai, contadini e artigiani.
Ma torniamo alla domanda di fondo: a quattordici anni è presto per far fare ad un ragazzo una scelta che già prefiguri la costruzione di una parte del proprio domani? Se così fosse dovremmo allora anche impedirgli di scegliersi un indirizzo liceale (che peraltro è spesso definitivo) o un indirizzo tecnico, di guidare un motorino o una mini-car e tutte le altre cose che diamo per scontate ai nostri ragazzi e che pur sono così tanto significative per la loro formazione! A 14-15 anni siedono sui banchi del Consiglio d’Istituto, delle Consulte provinciali e regionali e molti educatori e politici vorrebbero, per responsabilizzarli, anticipare il diritto di voto ai sedici anni. Ai ragazzi si consente quasi tutto: si permette lo spinello, la birra anche in grandi quantità, la discoteca per notti intere, i pomeriggi a zonzo, il far parte di bande di impuniti o di associazioni di ultras violente, la visione di programmi televisivi di inaudita stupidità e volgarità, il viaggiare liberamente su siti pieni di ogni nefandezza o di rischi di ogni genere. L’unica scelta che gli viene impedita è il percorso di formazione professionale. Eppure è solo entrando in comunicazione con quello che siamo chiamati a fare che si comincia ad apprendere, ed è pertanto assurdo che si obblighino dei ragazzi a rimanere irretiti per uno-due anni in attività che non amano (per usare un eufemismo), negandogli di imboccare la strada che è loro più consona.
Insomma, in barba alla Costituzione, le istituzioni - in questo caso la Regione Toscana, ma non è la sola fra le regioni italiane - anziché rimuovere gli ostacoli che impediscono ai giovani di costruirsi la propria personalità, contribuiscono ad imprigionarla e a tarparla, proprio nell’età che rivendica una maggiore autonomia e magari anche il diritto di sbagliare. Diritto che, come Propp ci insegna, rappresenta la più antica strada che ogni ragazzo dovrà pur prendere per crescere e magari per ricominciare daccapo il proprio cammino. Tanto meglio se sarà quello scolastico insieme all’amore per la cultura, che potrà ritornare se siamo riusciti a non fargliela disprezzare per sempre, perché è innegabile come una buona cultura serva, se non altro, a migliorare la qualità della vita, purché, ripeto, sia buona cultura, intendendo per buona quella che non viene utilizzata dagli uomini per renderli presuntuosi come invece spesso avviene, soprattutto se a scuola hanno masticato una percentuale maggiore di cultura umanistica rispetto a quella scientifica e tecnico-pratica.
Se un ragazzo desidera confrontarsi piuttosto con attività pratiche che non con percorsi riconducibili esclusivamente all’istruzione, seppur corroborata da elementi di laboratorialità, dovrebbe essere incoraggiato e aiutato a trovare anche in quella dimensione le ragioni della propria esistenza e del proprio futuro. Invece, anche quando questo desiderio è forte e può contare sul pieno e convinto sostegno delle famiglie, la legge non lascia scampo nella sua rigidità da grida seicentesca, se non quello, appunto, di trasgredirla al pari di quanto avveniva nel contesto storico-sociale che fa da sfondo, a proposito di gride, al romanzo del Manzoni. Potrei raccontare scene grottesche sulla reazione di alcuni genitori increduli rispetto all’impossibilità di ritirare i loro figli da scuola per avviarli al lavoro presso amici artigiani disponibili ad insegnargli un mestiere; molti di loro alla fine lasciano intendere che autorizzeranno i figli ad una frequenza episodica, abbandonando definitivamente qualsiasi ulteriore sforzo per convincerli a frequentare la scuola.
Il successo formativo, se non vogliamo accontentarci di percentuali altissime di evasione scolastica, con conseguenti fallimenti di ogni tipo, come abbiamo già visto, è assolutamente da perseguire anche al di fuori del percorso scolastico. Quest’ultimo potrà assicurare una buona cultura astratta, ma l’altro assicura a chi lo sceglie, innanzitutto dignità, e gli impedisce di diventare una pessima persona scontenta, probabilmente per tutta la vita, di sé e degli altri. È davvero singolare che si auspichi, da parte di chi ha a cuore il destino dei giovani, il loro successo formativo, senza neanche pensare che nessun essere umano potrà mai vivere con successo il raggiungimento di un obiettivo che non gli appartiene!
L’articolo 3 della Costituzione viene pertanto disatteso da coloro che, in nome del bene del prossimo, ne finiscono invece per limitare le libertà di scelta relative al proprio futuro e alla propria formazione di cittadino e di individuo. Così, impedendo ai ragazzi di “scappare” dai primi due anni di scuola delle superiori s’impedisce, di fatto, il pieno e autonomo sviluppo della loro personalità, dimostrando in definitiva una visione dello Stato come una sorta di tutore dei cittadini, invece che come garante delle loro libertà! Di cittadini, per di più, particolari come lo sono i ragazzi a quattordici anni, quando, nella nostra prima età, come ci ricorda Leopardi, l’attrazione irresistibile per ciò che vorremmo essere e il rifiuto netto per quello che vorrebbero gli altri si fosse, diventa il primo vero conflitto esistenziale importante nella nostra vita.

Valerio Vagnoli


E INTANTO LE AZIENDE DANNO LA CACCIA (SPESSO INVANO) A 34 FIGURE PROFESSIONALI

Un articolo che conferma in pieno dal punto di vista del mercato del lavoro quanto noi sosteniamo guardando prevalentemente all'insuccesso scolastico di troppi ragazzi e alle crescenti difficoltà degli insegnanti nel fare scuola, soprattutto all'interno degli istituti professionali. Leggi

venerdì 30 luglio 2010

A PROPOSITO DI ETICA PROFESSIONALE...

Discutendo di “aiutini” e di buonismo, di falsificazione dei voti e di blog lasciati liberi di fornire le soluzioni dei compiti d’esame, nonché di prove Invalsi svolte correttamente e di comportamenti definiti eufemisticamente “opportunistici”, abbiamo in definitiva affrontato dal punto di vista della scuola il tema dell’etica pubblica. In altri contesti, in cui la “rule of law” è molto più profondamente radicata nel costume, esiste anche, a rafforzarne e integrarne l’azione, una cultura professionale di cui i codici etici costituiscono una sintesi ampiamente condivisa. In Italia, invece, salvo errori, solo l’ADi (Associazione Docenti Italiani) e la Gilda degli Insegnanti (quest’ultima dopo molte esitazioni e quasi con imbarazzo) hanno adottato dei codici etico-deontologici o dei principi etici che dovrebbero quanto meno impegnare i loro associati.
Esiste poi da dieci anni un testo di legge che riguarda i doveri dei pubblici dipendenti in genere, ma contiene alcune fondamentali indicazioni valide anche per la scuola, nella quale, tuttavia, nessuno sembra interessato a farlo conoscere, a discuterne e a controllare che venga rispettato. Si tratta del Codice di Comportamento dei Dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, approvato dal Ministro per la funzione pubblica in data 1° dicembre 2000. E basterebbe che nelle scuole si discutesse su come applicare alle varie situazioni (verifiche, scrutini e esami in testa) i due passaggi seguenti, per far fare un grosso passo avanti alla coscienza professionale degli insegnanti italiani:

Art 1.1. I principi e i contenuti del presente codice costituiscono specificazioni esemplificative degli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità, che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa. I dipendenti pubblici [...] si impegnano ad osservarli all'atto dell'assunzione in servizio.
Art 2.1. [...] Nell'espletamento dei propri compiti, il dipendente assicura il rispetto della legge e persegue esclusivamente l'interesse pubblico; ispira le proprie decisioni ed i propri comportamenti alla cura dell'interesse pubblico che gli è affidato.
[...]

Testo integrale del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

sabato 17 luglio 2010

IL BUONISMO ALL’OPERA: LA FABBRICA DEI VOTI FALSI IN UN ESAME DI TERZA MEDIA

Mentre il Ministro Gelmini annuncia che sarà esteso l’uso dei test nazionali dell’Invalsi, molti consigli di classe, purtroppo, lavorano alacremente per consolidare la convinzione - già largamente diffusa - che gli insegnanti italiani non siano per niente affidabili in sede di valutazione finale. Ne abbiamo parlato nei giorni scorsi, suscitando un’animata discussione. Pubblichiamo oggi la testimonianza di prima mano di un collega fiorentino su come si sono svolti gli esami nella sua scuola media.

Cari amici del Gruppo di Firenze,
ho sempre creduto nella serietà della scuola misurata sull'impegno e la responsabilità di tutte le sue componenti. Vi sarà facile capire, perciò, il mio sconcerto di fronte ad una serie di episodi (solo apparentemente isolati) accaduti nella scuola media dove insegno durante gli esami di Stato.
Siccome il buon giorno si vede dal mattino, tutto è iniziato nella riunione preliminare, quando la commissione è stata invitata ad "ammorbidire" i voti delle prove scritte, evitando le insufficienze gravi (i 3 o i 4) e non scendendo, comunque, al di sotto di quelle veniali (i 5) per non compromettere, già in partenza, la "famigerata" media aritmetica stabilita dalla nuova normativa ministeriale per calcolare il voto finale e quindi l'esito stesso dell'esame. A tutto ciò si sono aggiunti, in corso d'opera, i comportamenti - a dir poco irrituali - di diversi colleghi e colleghe, che, sia in sede di colloquio che di scrutinio, hanno seguito un criterio di valutazione che non esito a definire "preventiva", adattando il voto dell'orale alla media scaturita dagli scritti, così da garantire una sorta di "sei politico" di sessantottina memoria. Nei casi più complicati, si sono addirittura modificati
ad libitum i voti dei compiti (già trascritti e ratificati dalla sottocommissione), per poi ottenere a "maggioranza" il risultato voluto, con il sostegno e l'avallo della presidenza e con buona pace di ogni legalità ed etica professionale!
Ad ogni buon conto, insieme ad altri colleghi (pochi), non ho mancato di rilevare e verbalizzare quanto sopra in sede di ratifica finale.

Roberto V.

lunedì 5 luglio 2010

INSEGNANTI "ESAUTORATI" NELL'ESAME DI TERZA MEDIA? NON SARÀ CHE ...


Nel condurre l’esame di terza media, pare che una parte degli insegnanti si sia sentita “esautorata” dal nuovo metodo con cui viene deciso il giudizio finale. Ne parla tra gli altri, con accenti sconcertanti, un articolo del ”Secolo XIX". C’è persino chi ha chiesto scusa ai genitori per questo sistema che penalizzerebbe anche gli allievi più meritevoli.
Questa critica al pur criticabilissimo regolamento per la valutazione degli alunni (DPR 122 del 22.6.2009) è veramente singolare, dato che il voto finale è la risultante di una media tra sette elementi, di cui uno solo - la prova dell’Invalsi - non dipende dal giudizio della commissione esaminatrice. Questi elementi sono: la media dei voti nelle varie materie con cui un allievo è stato ammesso, voti ovviamente decisi dai rispettivi docenti; le valutazioni delle cinque prove scritte, anche queste decise dagli insegnanti, a parte appunto quella nazionale dell’Invalsi che, essendo a risposta chiusa, viene valutata, per così dire, meccanicamente; infine, il giudizio sul colloquio orale, che viene concordato tra i membri della commissione. Nel caso che il calcolo si fermi tra un voto e l’altro si arrotonda al voto superiore: 6.50 diventa 7. Già, si obbietta nell’articolo, ma come si può bocciare con un 5.49 senza tener conto dell’andamento complessivo dei tre anni? Ma figuriamoci se ogni docente di questo andamento non ne tiene già conto per la propria materia! È una prassi del tutto normale, di fronte alla buona volontà e a qualche sia pur lieve progresso; e semmai spesso si esagera a favore dell’allievo. Faccio comunque notare che, per trovarsi nella situazione dell’esempio, un candidato deve aver avuto quattro 5 su sei prove d’esame...
Di conseguenza, a chi scrive (recentissimo commissario d’esame) non sembra proprio una pretesa stravagante e crudele quella di fare la media tra le sette valutazioni.
Perché allora molti colleghi si sentono “esautorati”? Temo che si tratti di un’ulteriore prova di quanto abbiamo più volte ripetuto su questo blog: per decenni gli insegnanti italiani - in particolare quelli delle elementari e delle medie - sono stati colpevolizzati avvertendoli che la “bocciatura è sempre un fallimento della scuola” e spinti a “incoraggiare”, a “comprendere”, cioè a tener conto delle più disparate attenuanti ed esimenti di natura psicologica, familiare e sociale; e senza mai richiamare la necessità di tenere comunque conto delle valutazioni date dai docenti stessi durante l’anno, anche rispetto a evidenti prove di disimpegno e di cattiva volontà degli allievi. Insomma, al posto di una certa elasticità nelle decisioni del docente in materia di valutazione, si è legittimato l’arbitrio fino al falso in atto pubblico. Non a caso per la mancata ammissione si sono richieste sempre dettagliate motivazioni, mentre per la promozione, anche la più ingiusta, nulla quaestio... Ricordo come esemplare uno scrutinio in cui si dovette votare per non promuovere una bambina straniera che si era assentata da dicembre a maggio (la proposta passò con un solo voto di scarto). Con questa “cultura” alle spalle (ma verrebbe da parlare di “addestramento”), è comprensibile che l’inaudita comparsa di un criterio “oggettivo”, tra molti ancora fin troppo manipolabili, è sembrato ad alcuni così insopportabile.
Ritengo infine positivo un certo abbassamento medio dei giudizi finali, che dall’anno scorso si esprimono in decimi. Nella mia scuola, su 240 candidati ci sono stati solo 3 dieci e 30 nove. Come l’inflazione monetaria, anche quella degli “ottimi” e dei “distinti” finiva soltanto per renderli poco significativi. Che l’eccellenza sia finalmente evidenziabile è senza dubbio una buona cosa, e lo è anche la diminuzione del divario tra i voti delle medie e quelli delle scuole superiori.
Nulla da cambiare, allora, nel nuovo esame e nelle valutazioni finali delle medie? Tutt’altro; e ne parleremo sicuramente nei prossimi giorni.

Giorgio Ragazzini

venerdì 2 luglio 2010

TEORIA E PRATICA NELLA FORMAZIONE DEI DOCENTI - Un confronto su “ilsussidiario.net”

Nei giorni scorsi “ilsussidiario.net”, quotidiano online della Fondazione per la sussidiarietà, mi ha cortesemente chiesto di commentare un intervento di Giovanni Cominelli sulla cosiddetta “Bozza Israel”, in altri termini sul regolamento che si occupa di formazione dei futuri docenti, redatto dalla commissione coordinata dal noto matematico e opinionista. Cosa che ho fatto ben volentieri (peccato che il titolo redazionale non sia molto felice nel sintetizzare il mio punto di vista; ma su questo si possono leggere nei “commenti” le mie precisazioni).
Il giorno dopo è intervenuta Luisa Ribolzi, seguita oggi dallo stesso Giorgio Israel.
Ecco i collegamenti agli articoli e relativi commenti:
Giovanni Cominelli - Giorgio Ragazzini - Luisa Ribolzi - Giorgio Israel

(G.R.)

venerdì 25 giugno 2010

BONTÀ E GIUSTIZIA NELLA SCUOLA DEGLI "AIUTINI"

Un criterio-guida per comprendere e contrastare la tendenza di una parte dei colleghi a “soccorrere” indebitamente i propri studenti potrebbe essere così enunciato: dobbiamo deciderci a impedire alla bontà di occupare abusivamente il territorio della giustizia. Di più: dobbiamo metterci bene in testa che la giustizia è una forma elevata di bontà, in quanto rivolta indistintamente a tutti e non solo a uno o a pochi individui, quelli che conosciamo personalmente e magari amiamo. Scrivono Veca e Alberoni (L’altruismo e la morale, p.8): in Italia “la bontà morale è identificata con lo slancio, con l’atto d’amore, con la dedizione verso qualcuno in concreto. Ad un italiano non viene in mente che sia buono chi fa uno studio accurato dei bisogni degli altri, di tutti gli altri. Non gli viene in mente, pensando alla bontà, lo studio razionale dei mezzi. In quanto fondata sull’impulso, la morale italiana è particolaristica. Si rivolge a questo, poi a quello, poi a quell’altro. Non riesce a porsi il problema di rivolgersi a tutti o a ‘chiunque’. Per gli italiani dovrebbe essere lo Stato, o l’amministrazione pubblica, a pensare a 'tutti'. Nessuno, però, singolarmente preso, si sente coinvolto in tale problema”.
Per lo stesso motivo molti insegnanti si sentono buoni perché aiutano i ragazzi in un momento difficile (cioè l’esame); e non gli viene in mente che stanno causando un triplice danno: privano i loro allievi della possibilità di mettersi alla prova, come richiede il loro processo di crescita; li educano alla slealtà; commettono un’ingiustizia verso chi si è basato soltanto sulle proprie forze. Guardando ai risultati, quindi, e non al vissuto soggettivo, questi colleghi sono piuttosto cattivi che buoni.
Questa consapevolezza morale è fondamentale, perché nutre la forza psicologica necessaria per assumere il ruolo imparziale di chi controlla che siano rispettate le regole e all’occorrenza è disposto a punire chi le viola. Il fatto che questo richieda di trattenere impulsi affettivi di carattere “materno” a favore di comportamenti improntati a un “paterno” senso della giustizia può farci percepire come “senza cuore”; ma in questa fermezza c’è, in realtà, un “voler bene” molto più vero e lungimirante.

mercoledì 23 giugno 2010

LIBERTÀ E MERITO NEL PAESE DEI FURBI

Basta un'occhiata a questa pagina della rete, segnalataci tempestivamente da un collega, per capire in quale conto si tenga il merito in questo paese, dove un sito del genere può agire indisturbato. Al telefono la polizia postale - a cui abbiamo comunque inviato una dettagliata informativa - ci ha risposto che con le leggi vigenti c'è ben poco da fare. La libertà di imbrogliare è dunque sacra? Staremo a vedere quanti esponenti politici si indigneranno per queste forme di "educazione alla legalità", purtroppo molto più incisive di tanti verbosi progetti scolastici.

domenica 20 giugno 2010

UNA STORIA ITALIANA

Nei giorni scorsi Massimo Gramellini ha raccontato una storia molto rivelatrice: un professore, nel corso dell’anno rigoroso e severo, durante la maturità confezionava traduzioni ad personam per i suoi allievi, tenendo conto delle loro prestazioni medie negli anni precedenti. Tra le molte osservazioni possibili, da sottolineare quanto sia difficile per alcuni docenti accettare che i propri allievi possano affrontare una prova significativa della loro vita (neanche particolarmente ardua) senza trucchi e indebite protezioni. Leggi.

mercoledì 16 giugno 2010

FORMAZIONE PROFESSIONALE E FUTURO DEI GIOVANI

I numerosi interventi sul blog relativi al tema della formazione professionale, unitamente al documento di alcuni presidi di istituti professionali toscani, mi stimolano ad una ulteriore riflessione sull’argomento.
Alcuni degli interventi e questo documento rifiutano decisamente il canale della formazione come idoneo all’assolvimento dell’obbligo scolastico, accanto a quello dell’istruzione. Si tende ad affidare a provvedimenti di carattere didattico-organizzativo il compito, non dico di risolvere, ma senz’altro di far rientrare in una situazione almeno fisiologica i drammatici problemi degli istituti professionali. Saranno cioè le didattiche laboratoriali, i tutor, i mentoring, le peer-education e l’aumento di qualche ora di laboratorio a far rientrare gran parte di questi problemi.
Penso che nei tempi lunghi tutta questa serie di innovazioni (in parte già in atto in molti progetti di varie scuole) possa senz’altro migliorare la qualità della didattica e incidere sul dramma dell’altissimo tasso di bocciature e di evasione scolastica; ma non in maniera sostanziale, come purtroppo mi conferma l’esperienza diretta. A portata di mano, invece, abbiamo i dati inequivocabili di quelle regioni italiane e di quei paesi europei in cui la formazione professionale ha dignità pari a quella dell’istruzione e dai quali risulta che l’insuccesso scolastico e formativo rimane al di sotto della soglia del dieci per cento.
Ho terminato proprio in questi giorni molti scrutini di prime e seconde classi ove si applica quasi esclusivamente la didattica laboratoriale, e dove sono presenti orientatori, percorsi individualizzati e tutor. E i risultati confermano, malgrado tali accorgimenti, tassi di bocciatura e di evasione scolastica inaccettabili.
Ebbene, da anni mi sento letteralmente sconvolto di fronte a questi dati, anche perché conosco bene i ragazzi che incontrano le più serie difficoltà e so che gran parte di loro, quando si misurano con attività pratiche, diventano altri rispetto a quello che normalmente appaiono. In realtà, mi verrebbe da dire, proprio in quelle circostanze diventano loro stessi, manifestano quanto di più vero abbiano dentro di sé: interesse e spesso passione per quello che in quei momenti si trovano a fare, e attraverso tutto ciò si avverte che iniziano finalmente ad avere interesse e passione per la vita e per le istituzioni, per prima la scuola.
Invece, quando sono tra i banchi, anche di fronte al più bravo e appassionato dei docenti, è evidente la loro frustrazione e il loro disagio perché privi di attese, se non quella di arrivare ai sedici anni per poter abbandonare la scuola. Non dimentichiamo, poi, un altro aspetto importantissimo di questa situazione: in molte classi gran parte delle ore di lezione sono letteralmente perse a causa del comportamento di molti studenti, che si esprime, nella migliore delle condizioni, attraverso disturbi continui alle lezioni. Capita spesso che in un’ora l’insegnante riesca lavorare a mala pena per una decina di minuti, con i conseguenti disastrosi danni per quegli studenti che, insieme alle loro famiglie, hanno legittime aspettative e motivazioni per la scuola. Scuola che, a differenza di molti loro compagni, questi ultimi hanno scelto per convinzione e non perché, peraltro ingiustamente, ritenuta la più facile.
Ho letto molti interventi e documenti sull’istruzione professionale e mai, ribadisco mai, ho trovato qualcuno che si preoccupi dei più bravi e dei più motivati, di quelli che dall’istruzione si aspettano di ricevere il meglio che essa dovrebbe essere in grado di offrire! Che tristezza, che senso d’ingiustizia mi assale quando famiglie povere o scarsamente scolarizzate, timorose e intimidite dalla loro condizione, che però contano sulla scuola per cambiare il destino dei loro figli, accettano remissive quello che accade, guardandosi bene dal protestare per ottenere ciò che lo Stato dovrebbe loro garantire: ore di scuola, non dolorosi frammenti di ore. Se certe dinamiche accadessero nei licei, se anche in questi indirizzi (i problemi dei professionali si stanno rapidamente estendendo anche ai Tecnici) diventasse arduo svolgere le lezioni perché frequentati da ragazzi demotivati e interessati ad altro, cosa accadrebbe? Ma sappiamo, in un Paese in cui il merito è un diritto da rivendicare solo se riguarda se stessi, della sorte dei poveri ci si interessa spesso per questioni di principio e non con senso di sano realismo e vera volontà di cambiare in meglio la loro vita. La scelta della regione Toscana e di chi la sostiene mi sembra tutta compresa nell’innegabile alto valore morale che il modello contiene, senza preoccuparsi, però, della realtà effettuale che una scelta del genere viene a determinare. Aggravante non da poco per la regione che ha dato i natali a Machiavelli.
Nelle classi prime si può sfiorare e superare il cinquanta per cento di bocciati? Nelle seconde si sfiora il venti per cento? Ai ragazzi interessati e motivati è di fatto vietato il diritto allo studio? “Indietro non si torna!” è la risposta che più volte mi è stata offerta, più o meno garbatamente, da chi non pensa affatto che possano avere successo anche altri modelli culturali nella formazione dei giovani; salvo poi sentire alcune di queste stesse persone sciacquarsi la bocca nei convegni sui meriti di Gardner e sull’importanza di valorizzare le disposizioni personali dei ragazzi.
Una delle accuse più scontate che viene rivolta a chi, come noi del Gruppo di Firenze, vorrebbe ridare prestigio e dignità alla formazione professionale, è che si vorrebbe tornare al passato, agli anni sessanta o giù di lì, quando questa opzione rappresentava un destino definitivo per i ragazzi più poveri da preparare al lavoro. Purtroppo, ancora oggi, molti si pongono di fronte al passato con una certa reverenza nei confronti dell’ideologia di appartenenza, senza però neanche provare a fare quello che il passato ci chiede, cioè d’essere quanto più possibile capaci di ricostruirlo, fin quasi a riviverlo e a sentirsi parte di esso. Negli anni sessanta e anche prima, i centri di formazione professionale furono scuole che preparavano a un lavoro specializzato, e perciò più dignitoso, gran parte dei figli dei contadini e degli operai [1]; ed in virtù di quella formazione moltissimi seppero riscattarsi da un retroterra più vicino al medioevo che alla modernità. Viene da pensare che la celebrazione esclusiva della figura di don Milani abbia oscurato gli altissimi meriti che in quegli stessi anni vanno riconosciuti a centinaia di migliaia di educatori, senza che questi, peraltro, avessero a disposizione quei personaggi potenti e ben introdotti a cui don Milani affidava e raccomandava i suoi ragazzi. Detto per inciso, la raccomandazione a fin di bene è un costume italiano trasversale e pertanto non degno di essere condannato...
Ma torniamo alla storia (e la cosa potrebbe riguardare la lettura che si è prevalentemente data in questi anni dello stesso don Milani). Quando ci rivolgiamo ad essa sotto la pressione dei nostri sentimenti, si finisce per allontanarci irrimediabilmente dal senso di realtà e a volere il passato piegato eternamente al presente, a quello che a noi piace che sia.
Che laboratori di creatività, di attese e di crescita civile furono i Centri di formazione professionale degli anni cinquanta e sessanta! Nessuno vuol tornare a quegli anni, ci mancherebbe altro, ma rispettiamoli e leggiamoli per quello che furono in grado di dare. Innanzitutto grandi speranze e un futuro migliore ai ragazzi di allora: quelle speranze e quel futuro migliore che la scuola di oggi, nuova, moderna e riformata spesso non è in grado assolutamente di dare.

Valerio Vagnoli

[1] Possibile che nessuno ricordi i meriti, tanto per fare un esempio a noi vicino, del Villaggio artigiano di Signa o dei tanti centri di formazione professionale pubblici e religiosi sparsi un po’ in tutta l’Italia?

sabato 5 giugno 2010

LA MORTE DEGLI ISTITUTI PROFESSIONALI

Un lettore ci segnala l'appello di un insegnante e di alcuni allievi di un istituto professionale, in notevole consonanza con l'intervento di Valerio Vagnoli e con le nostre idee in questa materia. Leggi

venerdì 4 giugno 2010

LA RISCOPERTA DEL LAVORO MANUALE

A commento dell’articolata relazione del governatore Draghi dell’altro ieri in Banca d’Italia, Dario di Vico firma sul Corriere d’ieri 1 giugno, con la chiarezza che gli è solita e che condivide con pochi altri tra coloro che si occupano di economia (di sicuro con Marcello de Cecco di Repubblica), un bell’articolo dal titolo I giovani “vittime della crisi” e quel gap nei mestieri artigiani.
Di Vico riprende un tema caro allo stesso Governatore e più volte da questi analizzato durante le sue annuali relazioni. Quello, cioè, di una scuola che è andata verso una sorta di licealizzazione di massa a discapito della formazione tecnica e professionale specialistica, che potrebbe collocare un numero altissimo di giovani in vasti settori dell’economia e del lavoro decisamente sguarniti. Lo scimmiottamento della piccola borghesia che ha accompagnato culturalmente e socialmente gran parte della storia - diciamo così antropologico-sociale del ‘900 - è di là da finire. Su questi temi hanno scritto pagine indimenticabili (ma cosa leggono i pedagogisti “progressisti?”) intellettuali tra i più eccelsi della nostra storia recente, come Luisa Mangoni, Alberto Asor Rosa, Pier Paolo Pasolini, Mario Isnenghi, Giulio Ferroni, Gaetano Salvemini; ma evidentemente siamo ancora al punto di partenza. Vale a dire che siamo ancora ad una visione piramidale della cultura; e si preferisce, da parte di molti addetti ai lavori, non spendere una parola per mettere in guardia recenti famiglie benestanti alla ricerca di una laurea “familiare” (spesso inutile, da attaccare alla parete e destinata a rovinare letteralmente la vita di migliaia e migliaia di giovani destinati al precariato a vita) piuttosto che riconoscere, che al pari di quella liceale, vi possono essere un’ istruzione e una formazione professionali in grado di elevare la dignità dell’uomo al pari di quella liceale e, a differenza di quest’ultima, di garantire un’occupazione, premessa indispensabile per diventar sul serio cittadini responsabili e critici.
Scrive di Vico: "Va dunque completata la riforma del mercato del lavoro, come ha sostenuto Draghi, ma forse è maturo il tempo per aprire una riflessione su quello che per amor di semplicità potremmo definire ‘rivalutazione del lavoro manuale’. C’è un evidente disallineamento tra i percorsi formativi che seguono i nostri studenti e le occasioni che fornisce il mondo del lavoro. Nel primo caso siamo davanti a una licealizzazione spinta, dall’altra a una richiesta da parte dell’industria e dell’artigianato di tecnici. Nei mesi scorsi l’Unione Industriali di Treviso era ricorsa addirittura alla pubblicità sui bus per stimolare le iscrizioni agli istituti tecnici... Successivamente le associazioni che si occupano di mestieri d’arte avevano denunciato la difficoltà a trovare sostituti per i maestri in età da pensione”.
Di Vico prosegue la sua analisi formulando anche delle precise proposte, che coincidono peraltro con quanto il Gruppo di Firenze aveva voluto far emergere attraverso il Convegno del 5 dicembre scorso su Obbligo scolastico e formazione professionale. La prima di queste proposte, la più importante e forse la sola che può davvero avviare una trasformazione radicale della mentalità della gran parte delle famiglie e dei ragazzi, è di carattere culturale. È davvero necessaria ”... una battaglia culturale che sradichi l’idea, presente in molte famiglie, che un lavoro manuale sia in ogni caso da evitare. I dati che vengono dal Veneto ci dicono che in queste settimane si cominciano a iscrivere ai corsi da badante e infermiere non più solo immigrati ma anche italiani”. Insomma, ogni uomo deve essere artefice del proprio destino, senza che sia la necessità impellente, il bisogno, come si diceva un tempo, ad obbligarlo a vie d’uscita o di ripiego a cui non aveva mai pensato e che vivrà immancabilmente con senso di frustrazione. Certo, si obietterà (anzi a questo tipo di argomentazioni si obietta già da moltissimo tempo) che a quattordici-quindici anni non si è artefici di un bel niente; e che far fare a quell’età delle scelte che potrebbero essere definitive significherebbe pregiudicare la vita e i percorsi futuri dei ragazzi. Già, si ritorna ai temi cari a quella piccola borghesia novecentesca che non ha avuto mai, ripeto mai, nulla da obiettare di fronte ad un ragazzo che a quattordici o tredici anni (ah le primine, come direbbe Arbasino!) avesse scelto, come peraltro accade, di fare un percorso così definitivo e spesso senza ritorno come il liceo o d’infilarsi in qualche vivaio calcistico destinato ad assicurare un futuro di successo ad appena il tre per cento dei ragazzi che vi si inoltrano. Senza contare quei ragazzi che fin da bambini si immergono quasi completamente negli interessi musicali, nella danza, nel canto o in altre attività sportive diverse dal calcio, per i quali non si è mai gridato allo scandalo. Lo spauracchio è la formazione professionale, il lavoro manuale che, se specializzato, potrebbe senz’altro voler dire garantirsi i più elementari diritti. Ma si sa, la piccola borghesia preferisce gli immigrati al nero, costano meno e sono più ubbidienti!

Valerio Vagnoli

mercoledì 2 giugno 2010

LE ABERRAZIONI DEL PEDAGOGICAMENTE CORRETTO

Nelle scuole dilagano le “griglie”, in genere caratterizzate dalla fatica, dalla noia e dal senso di inutilità che procurano al lettore ragionevole. Ci sono quelle che cercano di stabilire una minuziosa corrispondenza tra mancanze disciplinari e sanzioni (vedi un esempio tra i tanti), in risposta a una nota ministeriale del 2008 che raccomandava “uno sforzo di tipizzazione dei comportamenti generali cui ricollegare le sanzioni”; quelle che illustrano le cosiddette competenze (vedi esempio); quelle (ultime venute) che ci spiegano che cosa significhi avere 10 in una materia, che cosa significhi avere 6, che cosa 5 (esempio 1, esempio 2).
Diversi sono i fattori che concorrono alla fortuna delle griglie. Certamente la pigrizia mentale e la rassegnazione che affliggono una buona parte dei docenti di fronte a ciò che arriva dall’alto o viene messo in giro da qualche pedagogista, con il conseguente abbandono di ogni spirito critico; la pavidità di molti dirigenti, timorosi di incorrere in chissà quali censure, quando, oltretutto, è evidente che al momento non si vede purtroppo traccia di una seria valutazione del loro operato. Ma l’incomprensibile prestigio di cui godono le griglie di valutazione deve molto, a mio avviso, a due idee: la ricerca della scientificità (o oggettività) e il dovere della trasparenza (o rendicontazione). In poche parole, ci si illude di poter eliminare ogni traccia di soggettività (sinonimo di arbitrio e di pregiudizio) quando si valuta un compito o l’andamento complessivo di un allievo in storia o in matematica; e si ritiene che si debbano esplicitare fin nei particolari i criteri e le procedure che si adottano nella pratica didattica. E uno degli scopi “sottotraccia” di questa vera e propria ossessione è certamente quello di legare le mani ai docenti, considerati inaffidabili e a volte sadici, mettendoli in condizione di non nuocere. L’insegnante dovrà allora essere avvolto da una nube di imperscrutabilità? Certamente no, ma nelle sue valutazioni, nonostante ogni sforzo, resterà per forza un margine di sensibilità soggettiva, nutrita dall’esperienza e magari dal confronto con i colleghi, ma irriducibile a qualcosa di misurabile scientificamente. Lo dimostrano proprio i confronti fra colleghi che correggano lo stesso tema o lo stesso compito di matematica. E anche gli stessi “test oggettivi” contengono inevitabilmente una componente di scelta, e quindi di arbitrarietà. Si vedano quelli dell’Invalsi a risposta chiusa per l’esame di terza media: perché dovrebbe essere così “oggettivo”, per esempio, assegnare il massimo punteggio (100) a tutti gli allievi che hanno dato da 37 a 40 risposte, quando è evidente che chi non ha fatto errori non può stare allo stesso livello di chi ne ha fatti quattro?
Oltretutto, l’esperienza dimostra che questa mania esplicativa crea un circolo vizioso: più i docenti spiegano, più molti studenti e genitori pretendono cavillosamente spiegazioni.
Infine, solo una diffusa ipocrisia impedisce di ammettere che questi strumenti sono in molti casi inapplicabili. Nella mia scuola media, ad esempio, ci è stata distribuita, in vista degli scrutini, una griglia di valutazione delle discipline che era stata approvata all’inizio dell’anno. A ogni valutazione numerica (= voto), si fanno corrispondere varie precisazioni sull’ aspetto cognitivo e su quello comportamentale. Cosa significherebbe, per esempio, un 8? Vediamo:

ASPETTO COGNITIVO

Conoscenze: ha acquisito i concetti trattati, collegando le conoscenze, e li utilizza in contesti assegnati.
Logica e procedura: rielabora in modo critico e personale. Dimostra abilità logiche e procedurali.
Comunicazione ed esposizione: è corretto e sicuro nell’esposizione orale, grafica, scritta.
Comunica con proprietà di linguaggio ed in modo logico, utilizzando adeguatamente i linguaggi specifici.
Uso di strumenti e progettualità: sa usare vari strumenti e materiali in situazioni e contesti diversi, finalizzandoli al raggiungimento di uno scopo o alla risoluzione di un problema

ASPETTO COMPORTAMENTALE

Impegno: costante
Organizzazione del lavoro: autonoma e accurata.
Cura del materiale: puntuale ed accurata.
Partecipazione: collaborativa e proficua.
Interesse: costante vivace in modo

Ma cosa fa nella realtà l’insegnante alla fine del quadrimestre? Guarda il registro, fa una media delle valutazioni e eventualmente la arrotonda verso l’alto o verso il basso, tenendo magari conto di un andamento in progresso o in regresso. Quindi, a cosa mai gli può servire una griglia del genere? E il genitore ne ricava indicazioni precise sul significato di un voto? No, perché è impossibile una perfetta corrispondenza tra il livello raggiunto da ciascuno e uno schema astratto. Potrebbe aver raggiunto le conoscenze descritte anche senza un impegno costante; oppure essendo disordinato o avendo lavorato senza grande interesse, ma con volonterosa applicazione; la padronanza di alcune conoscenze potrebbe essere da 10, di altre da 6; e via combinando i vari elementi.
Insomma, il tentativo di mettere le brache alla realtà fallisce come sempre. Con buona pace della correttezza politico-pedagogica.

Giorgio Ragazzini

domenica 30 maggio 2010

INDICAZIONI PER I LICEI, LA RIVENDICAZIONE DI UNA SVOLTA

Con la pubblicazione del testo definitivo delle Indicazioni Nazionali il cammino della riforma dei licei è sostanzialmente concluso, al di là degli ulteriori passaggi tecnici. Delle Indicazioni ci siamo già occupati, apprezzando la semplicità della struttura e la chiarezza del linguaggio in luogo dei mortiferi cataloghi di abilità e competenze e del gergo pseudospecialistico fin qui utilizzata da analoghi documenti ministeriali. Nel post del 16 aprile abbiamo documentato e commentato i molti interventi pro e contro e abbiamo scritto che nei critici più severi, quelli che, auspicando una didattica delle competenze, parlano di queste Indicazioni come di un “ritorno ai tempi in cui Berta filava”, è più o meno esplicita l’idea che le Indicazioni avrebbero dovuto contenere delle chiare prescrizioni metodologiche da imporre ai docenti italiani, per loro natura riottosi di fronte a qualsiasi innovazione didattica. In linea con questa impostazione è anche un intervento di Mauro Ceruti sul Sole 24 Ore del 24 maggio, nel quale, premesso che le Indicazioni “sono il segnale del prevalere di un’attitudine contenutistica e prescrittiva”, si lamenta che “ le indicazioni metodologiche, ineliminabili per la costruzione di solide organizzazioni dei saperi, sono praticamente assenti dal testo”.
Questa “assenza”, che dal punto di vista di Ceruti è un grave limite, è invece fortemente rivendicata dagli estensori delle Indicazioni come una consapevole e convinta scelta di fondo in un capitolo della Nota introduttiva intitolato “Obiettivi, competenze e autonomia didattica” (pagg. 9-11). La libertà di insegnamento, cioè la piena autonomia dei docenti di operare “senza imposizioni di metodi o di ricette didattiche”, è più volte richiamata come uno dei fondamenti di queste Indicazioni, insieme all’importanza del patrimonio professionale che gli insegnanti devono poter condividere con i colleghi. Si legge infatti in conclusione del capitolo:
Le Indicazioni non dettano alcun modello didattico-pedagogico. Ciò significa favorire la sperimentazione e lo scambio di esperienze metodologiche, valorizzare il ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella loro libera progettazione e negare diritto di cittadinanza, in questo delicatissimo ambito, a qualunque tentativo di prescrittivismo. La libertà del docente dunque si esplica non solo nell’arricchimento di quanto previsto nelle Indicazioni, in ragione dei percorsi che riterrà più proficuo mettere in particolare rilievo e della specificità dei singoli indirizzi liceali, ma nella scelta delle strategie e delle metodologie più appropriate, la cui validità è testimoniata non dall’applicazione di qualsivoglia procedura, ma dal successo educativo.”
Se a questo si aggiunge la rivendicazione del carattere unitario della conoscenza, “senza alcuna separazione tra ‘nozione’ e sua traduzione in abilità” e la critica alla tesi che “l’individuazione [...] di astratte competenze trasversali possa rendere irrilevanti i contenuti di apprendimento”, ne abbiamo quanto basta, dal nostro punto di vista, per parlare di una svolta molto profonda e per considerare le Indicazioni per i Licei la parte più innovativa della riforma.