venerdì 25 giugno 2010

BONTÀ E GIUSTIZIA NELLA SCUOLA DEGLI "AIUTINI"

Un criterio-guida per comprendere e contrastare la tendenza di una parte dei colleghi a “soccorrere” indebitamente i propri studenti potrebbe essere così enunciato: dobbiamo deciderci a impedire alla bontà di occupare abusivamente il territorio della giustizia. Di più: dobbiamo metterci bene in testa che la giustizia è una forma elevata di bontà, in quanto rivolta indistintamente a tutti e non solo a uno o a pochi individui, quelli che conosciamo personalmente e magari amiamo. Scrivono Veca e Alberoni (L’altruismo e la morale, p.8): in Italia “la bontà morale è identificata con lo slancio, con l’atto d’amore, con la dedizione verso qualcuno in concreto. Ad un italiano non viene in mente che sia buono chi fa uno studio accurato dei bisogni degli altri, di tutti gli altri. Non gli viene in mente, pensando alla bontà, lo studio razionale dei mezzi. In quanto fondata sull’impulso, la morale italiana è particolaristica. Si rivolge a questo, poi a quello, poi a quell’altro. Non riesce a porsi il problema di rivolgersi a tutti o a ‘chiunque’. Per gli italiani dovrebbe essere lo Stato, o l’amministrazione pubblica, a pensare a 'tutti'. Nessuno, però, singolarmente preso, si sente coinvolto in tale problema”.
Per lo stesso motivo molti insegnanti si sentono buoni perché aiutano i ragazzi in un momento difficile (cioè l’esame); e non gli viene in mente che stanno causando un triplice danno: privano i loro allievi della possibilità di mettersi alla prova, come richiede il loro processo di crescita; li educano alla slealtà; commettono un’ingiustizia verso chi si è basato soltanto sulle proprie forze. Guardando ai risultati, quindi, e non al vissuto soggettivo, questi colleghi sono piuttosto cattivi che buoni.
Questa consapevolezza morale è fondamentale, perché nutre la forza psicologica necessaria per assumere il ruolo imparziale di chi controlla che siano rispettate le regole e all’occorrenza è disposto a punire chi le viola. Il fatto che questo richieda di trattenere impulsi affettivi di carattere “materno” a favore di comportamenti improntati a un “paterno” senso della giustizia può farci percepire come “senza cuore”; ma in questa fermezza c’è, in realtà, un “voler bene” molto più vero e lungimirante.

mercoledì 23 giugno 2010

LIBERTÀ E MERITO NEL PAESE DEI FURBI

Basta un'occhiata a questa pagina della rete, segnalataci tempestivamente da un collega, per capire in quale conto si tenga il merito in questo paese, dove un sito del genere può agire indisturbato. Al telefono la polizia postale - a cui abbiamo comunque inviato una dettagliata informativa - ci ha risposto che con le leggi vigenti c'è ben poco da fare. La libertà di imbrogliare è dunque sacra? Staremo a vedere quanti esponenti politici si indigneranno per queste forme di "educazione alla legalità", purtroppo molto più incisive di tanti verbosi progetti scolastici.

domenica 20 giugno 2010

UNA STORIA ITALIANA

Nei giorni scorsi Massimo Gramellini ha raccontato una storia molto rivelatrice: un professore, nel corso dell’anno rigoroso e severo, durante la maturità confezionava traduzioni ad personam per i suoi allievi, tenendo conto delle loro prestazioni medie negli anni precedenti. Tra le molte osservazioni possibili, da sottolineare quanto sia difficile per alcuni docenti accettare che i propri allievi possano affrontare una prova significativa della loro vita (neanche particolarmente ardua) senza trucchi e indebite protezioni. Leggi.

mercoledì 16 giugno 2010

FORMAZIONE PROFESSIONALE E FUTURO DEI GIOVANI

I numerosi interventi sul blog relativi al tema della formazione professionale, unitamente al documento di alcuni presidi di istituti professionali toscani, mi stimolano ad una ulteriore riflessione sull’argomento.
Alcuni degli interventi e questo documento rifiutano decisamente il canale della formazione come idoneo all’assolvimento dell’obbligo scolastico, accanto a quello dell’istruzione. Si tende ad affidare a provvedimenti di carattere didattico-organizzativo il compito, non dico di risolvere, ma senz’altro di far rientrare in una situazione almeno fisiologica i drammatici problemi degli istituti professionali. Saranno cioè le didattiche laboratoriali, i tutor, i mentoring, le peer-education e l’aumento di qualche ora di laboratorio a far rientrare gran parte di questi problemi.
Penso che nei tempi lunghi tutta questa serie di innovazioni (in parte già in atto in molti progetti di varie scuole) possa senz’altro migliorare la qualità della didattica e incidere sul dramma dell’altissimo tasso di bocciature e di evasione scolastica; ma non in maniera sostanziale, come purtroppo mi conferma l’esperienza diretta. A portata di mano, invece, abbiamo i dati inequivocabili di quelle regioni italiane e di quei paesi europei in cui la formazione professionale ha dignità pari a quella dell’istruzione e dai quali risulta che l’insuccesso scolastico e formativo rimane al di sotto della soglia del dieci per cento.
Ho terminato proprio in questi giorni molti scrutini di prime e seconde classi ove si applica quasi esclusivamente la didattica laboratoriale, e dove sono presenti orientatori, percorsi individualizzati e tutor. E i risultati confermano, malgrado tali accorgimenti, tassi di bocciatura e di evasione scolastica inaccettabili.
Ebbene, da anni mi sento letteralmente sconvolto di fronte a questi dati, anche perché conosco bene i ragazzi che incontrano le più serie difficoltà e so che gran parte di loro, quando si misurano con attività pratiche, diventano altri rispetto a quello che normalmente appaiono. In realtà, mi verrebbe da dire, proprio in quelle circostanze diventano loro stessi, manifestano quanto di più vero abbiano dentro di sé: interesse e spesso passione per quello che in quei momenti si trovano a fare, e attraverso tutto ciò si avverte che iniziano finalmente ad avere interesse e passione per la vita e per le istituzioni, per prima la scuola.
Invece, quando sono tra i banchi, anche di fronte al più bravo e appassionato dei docenti, è evidente la loro frustrazione e il loro disagio perché privi di attese, se non quella di arrivare ai sedici anni per poter abbandonare la scuola. Non dimentichiamo, poi, un altro aspetto importantissimo di questa situazione: in molte classi gran parte delle ore di lezione sono letteralmente perse a causa del comportamento di molti studenti, che si esprime, nella migliore delle condizioni, attraverso disturbi continui alle lezioni. Capita spesso che in un’ora l’insegnante riesca lavorare a mala pena per una decina di minuti, con i conseguenti disastrosi danni per quegli studenti che, insieme alle loro famiglie, hanno legittime aspettative e motivazioni per la scuola. Scuola che, a differenza di molti loro compagni, questi ultimi hanno scelto per convinzione e non perché, peraltro ingiustamente, ritenuta la più facile.
Ho letto molti interventi e documenti sull’istruzione professionale e mai, ribadisco mai, ho trovato qualcuno che si preoccupi dei più bravi e dei più motivati, di quelli che dall’istruzione si aspettano di ricevere il meglio che essa dovrebbe essere in grado di offrire! Che tristezza, che senso d’ingiustizia mi assale quando famiglie povere o scarsamente scolarizzate, timorose e intimidite dalla loro condizione, che però contano sulla scuola per cambiare il destino dei loro figli, accettano remissive quello che accade, guardandosi bene dal protestare per ottenere ciò che lo Stato dovrebbe loro garantire: ore di scuola, non dolorosi frammenti di ore. Se certe dinamiche accadessero nei licei, se anche in questi indirizzi (i problemi dei professionali si stanno rapidamente estendendo anche ai Tecnici) diventasse arduo svolgere le lezioni perché frequentati da ragazzi demotivati e interessati ad altro, cosa accadrebbe? Ma sappiamo, in un Paese in cui il merito è un diritto da rivendicare solo se riguarda se stessi, della sorte dei poveri ci si interessa spesso per questioni di principio e non con senso di sano realismo e vera volontà di cambiare in meglio la loro vita. La scelta della regione Toscana e di chi la sostiene mi sembra tutta compresa nell’innegabile alto valore morale che il modello contiene, senza preoccuparsi, però, della realtà effettuale che una scelta del genere viene a determinare. Aggravante non da poco per la regione che ha dato i natali a Machiavelli.
Nelle classi prime si può sfiorare e superare il cinquanta per cento di bocciati? Nelle seconde si sfiora il venti per cento? Ai ragazzi interessati e motivati è di fatto vietato il diritto allo studio? “Indietro non si torna!” è la risposta che più volte mi è stata offerta, più o meno garbatamente, da chi non pensa affatto che possano avere successo anche altri modelli culturali nella formazione dei giovani; salvo poi sentire alcune di queste stesse persone sciacquarsi la bocca nei convegni sui meriti di Gardner e sull’importanza di valorizzare le disposizioni personali dei ragazzi.
Una delle accuse più scontate che viene rivolta a chi, come noi del Gruppo di Firenze, vorrebbe ridare prestigio e dignità alla formazione professionale, è che si vorrebbe tornare al passato, agli anni sessanta o giù di lì, quando questa opzione rappresentava un destino definitivo per i ragazzi più poveri da preparare al lavoro. Purtroppo, ancora oggi, molti si pongono di fronte al passato con una certa reverenza nei confronti dell’ideologia di appartenenza, senza però neanche provare a fare quello che il passato ci chiede, cioè d’essere quanto più possibile capaci di ricostruirlo, fin quasi a riviverlo e a sentirsi parte di esso. Negli anni sessanta e anche prima, i centri di formazione professionale furono scuole che preparavano a un lavoro specializzato, e perciò più dignitoso, gran parte dei figli dei contadini e degli operai [1]; ed in virtù di quella formazione moltissimi seppero riscattarsi da un retroterra più vicino al medioevo che alla modernità. Viene da pensare che la celebrazione esclusiva della figura di don Milani abbia oscurato gli altissimi meriti che in quegli stessi anni vanno riconosciuti a centinaia di migliaia di educatori, senza che questi, peraltro, avessero a disposizione quei personaggi potenti e ben introdotti a cui don Milani affidava e raccomandava i suoi ragazzi. Detto per inciso, la raccomandazione a fin di bene è un costume italiano trasversale e pertanto non degno di essere condannato...
Ma torniamo alla storia (e la cosa potrebbe riguardare la lettura che si è prevalentemente data in questi anni dello stesso don Milani). Quando ci rivolgiamo ad essa sotto la pressione dei nostri sentimenti, si finisce per allontanarci irrimediabilmente dal senso di realtà e a volere il passato piegato eternamente al presente, a quello che a noi piace che sia.
Che laboratori di creatività, di attese e di crescita civile furono i Centri di formazione professionale degli anni cinquanta e sessanta! Nessuno vuol tornare a quegli anni, ci mancherebbe altro, ma rispettiamoli e leggiamoli per quello che furono in grado di dare. Innanzitutto grandi speranze e un futuro migliore ai ragazzi di allora: quelle speranze e quel futuro migliore che la scuola di oggi, nuova, moderna e riformata spesso non è in grado assolutamente di dare.

Valerio Vagnoli

[1] Possibile che nessuno ricordi i meriti, tanto per fare un esempio a noi vicino, del Villaggio artigiano di Signa o dei tanti centri di formazione professionale pubblici e religiosi sparsi un po’ in tutta l’Italia?

sabato 5 giugno 2010

LA MORTE DEGLI ISTITUTI PROFESSIONALI

Un lettore ci segnala l'appello di un insegnante e di alcuni allievi di un istituto professionale, in notevole consonanza con l'intervento di Valerio Vagnoli e con le nostre idee in questa materia. Leggi

venerdì 4 giugno 2010

LA RISCOPERTA DEL LAVORO MANUALE

A commento dell’articolata relazione del governatore Draghi dell’altro ieri in Banca d’Italia, Dario di Vico firma sul Corriere d’ieri 1 giugno, con la chiarezza che gli è solita e che condivide con pochi altri tra coloro che si occupano di economia (di sicuro con Marcello de Cecco di Repubblica), un bell’articolo dal titolo I giovani “vittime della crisi” e quel gap nei mestieri artigiani.
Di Vico riprende un tema caro allo stesso Governatore e più volte da questi analizzato durante le sue annuali relazioni. Quello, cioè, di una scuola che è andata verso una sorta di licealizzazione di massa a discapito della formazione tecnica e professionale specialistica, che potrebbe collocare un numero altissimo di giovani in vasti settori dell’economia e del lavoro decisamente sguarniti. Lo scimmiottamento della piccola borghesia che ha accompagnato culturalmente e socialmente gran parte della storia - diciamo così antropologico-sociale del ‘900 - è di là da finire. Su questi temi hanno scritto pagine indimenticabili (ma cosa leggono i pedagogisti “progressisti?”) intellettuali tra i più eccelsi della nostra storia recente, come Luisa Mangoni, Alberto Asor Rosa, Pier Paolo Pasolini, Mario Isnenghi, Giulio Ferroni, Gaetano Salvemini; ma evidentemente siamo ancora al punto di partenza. Vale a dire che siamo ancora ad una visione piramidale della cultura; e si preferisce, da parte di molti addetti ai lavori, non spendere una parola per mettere in guardia recenti famiglie benestanti alla ricerca di una laurea “familiare” (spesso inutile, da attaccare alla parete e destinata a rovinare letteralmente la vita di migliaia e migliaia di giovani destinati al precariato a vita) piuttosto che riconoscere, che al pari di quella liceale, vi possono essere un’ istruzione e una formazione professionali in grado di elevare la dignità dell’uomo al pari di quella liceale e, a differenza di quest’ultima, di garantire un’occupazione, premessa indispensabile per diventar sul serio cittadini responsabili e critici.
Scrive di Vico: "Va dunque completata la riforma del mercato del lavoro, come ha sostenuto Draghi, ma forse è maturo il tempo per aprire una riflessione su quello che per amor di semplicità potremmo definire ‘rivalutazione del lavoro manuale’. C’è un evidente disallineamento tra i percorsi formativi che seguono i nostri studenti e le occasioni che fornisce il mondo del lavoro. Nel primo caso siamo davanti a una licealizzazione spinta, dall’altra a una richiesta da parte dell’industria e dell’artigianato di tecnici. Nei mesi scorsi l’Unione Industriali di Treviso era ricorsa addirittura alla pubblicità sui bus per stimolare le iscrizioni agli istituti tecnici... Successivamente le associazioni che si occupano di mestieri d’arte avevano denunciato la difficoltà a trovare sostituti per i maestri in età da pensione”.
Di Vico prosegue la sua analisi formulando anche delle precise proposte, che coincidono peraltro con quanto il Gruppo di Firenze aveva voluto far emergere attraverso il Convegno del 5 dicembre scorso su Obbligo scolastico e formazione professionale. La prima di queste proposte, la più importante e forse la sola che può davvero avviare una trasformazione radicale della mentalità della gran parte delle famiglie e dei ragazzi, è di carattere culturale. È davvero necessaria ”... una battaglia culturale che sradichi l’idea, presente in molte famiglie, che un lavoro manuale sia in ogni caso da evitare. I dati che vengono dal Veneto ci dicono che in queste settimane si cominciano a iscrivere ai corsi da badante e infermiere non più solo immigrati ma anche italiani”. Insomma, ogni uomo deve essere artefice del proprio destino, senza che sia la necessità impellente, il bisogno, come si diceva un tempo, ad obbligarlo a vie d’uscita o di ripiego a cui non aveva mai pensato e che vivrà immancabilmente con senso di frustrazione. Certo, si obietterà (anzi a questo tipo di argomentazioni si obietta già da moltissimo tempo) che a quattordici-quindici anni non si è artefici di un bel niente; e che far fare a quell’età delle scelte che potrebbero essere definitive significherebbe pregiudicare la vita e i percorsi futuri dei ragazzi. Già, si ritorna ai temi cari a quella piccola borghesia novecentesca che non ha avuto mai, ripeto mai, nulla da obiettare di fronte ad un ragazzo che a quattordici o tredici anni (ah le primine, come direbbe Arbasino!) avesse scelto, come peraltro accade, di fare un percorso così definitivo e spesso senza ritorno come il liceo o d’infilarsi in qualche vivaio calcistico destinato ad assicurare un futuro di successo ad appena il tre per cento dei ragazzi che vi si inoltrano. Senza contare quei ragazzi che fin da bambini si immergono quasi completamente negli interessi musicali, nella danza, nel canto o in altre attività sportive diverse dal calcio, per i quali non si è mai gridato allo scandalo. Lo spauracchio è la formazione professionale, il lavoro manuale che, se specializzato, potrebbe senz’altro voler dire garantirsi i più elementari diritti. Ma si sa, la piccola borghesia preferisce gli immigrati al nero, costano meno e sono più ubbidienti!

Valerio Vagnoli

mercoledì 2 giugno 2010

LE ABERRAZIONI DEL PEDAGOGICAMENTE CORRETTO

Nelle scuole dilagano le “griglie”, in genere caratterizzate dalla fatica, dalla noia e dal senso di inutilità che procurano al lettore ragionevole. Ci sono quelle che cercano di stabilire una minuziosa corrispondenza tra mancanze disciplinari e sanzioni (vedi un esempio tra i tanti), in risposta a una nota ministeriale del 2008 che raccomandava “uno sforzo di tipizzazione dei comportamenti generali cui ricollegare le sanzioni”; quelle che illustrano le cosiddette competenze (vedi esempio); quelle (ultime venute) che ci spiegano che cosa significhi avere 10 in una materia, che cosa significhi avere 6, che cosa 5 (esempio 1, esempio 2).
Diversi sono i fattori che concorrono alla fortuna delle griglie. Certamente la pigrizia mentale e la rassegnazione che affliggono una buona parte dei docenti di fronte a ciò che arriva dall’alto o viene messo in giro da qualche pedagogista, con il conseguente abbandono di ogni spirito critico; la pavidità di molti dirigenti, timorosi di incorrere in chissà quali censure, quando, oltretutto, è evidente che al momento non si vede purtroppo traccia di una seria valutazione del loro operato. Ma l’incomprensibile prestigio di cui godono le griglie di valutazione deve molto, a mio avviso, a due idee: la ricerca della scientificità (o oggettività) e il dovere della trasparenza (o rendicontazione). In poche parole, ci si illude di poter eliminare ogni traccia di soggettività (sinonimo di arbitrio e di pregiudizio) quando si valuta un compito o l’andamento complessivo di un allievo in storia o in matematica; e si ritiene che si debbano esplicitare fin nei particolari i criteri e le procedure che si adottano nella pratica didattica. E uno degli scopi “sottotraccia” di questa vera e propria ossessione è certamente quello di legare le mani ai docenti, considerati inaffidabili e a volte sadici, mettendoli in condizione di non nuocere. L’insegnante dovrà allora essere avvolto da una nube di imperscrutabilità? Certamente no, ma nelle sue valutazioni, nonostante ogni sforzo, resterà per forza un margine di sensibilità soggettiva, nutrita dall’esperienza e magari dal confronto con i colleghi, ma irriducibile a qualcosa di misurabile scientificamente. Lo dimostrano proprio i confronti fra colleghi che correggano lo stesso tema o lo stesso compito di matematica. E anche gli stessi “test oggettivi” contengono inevitabilmente una componente di scelta, e quindi di arbitrarietà. Si vedano quelli dell’Invalsi a risposta chiusa per l’esame di terza media: perché dovrebbe essere così “oggettivo”, per esempio, assegnare il massimo punteggio (100) a tutti gli allievi che hanno dato da 37 a 40 risposte, quando è evidente che chi non ha fatto errori non può stare allo stesso livello di chi ne ha fatti quattro?
Oltretutto, l’esperienza dimostra che questa mania esplicativa crea un circolo vizioso: più i docenti spiegano, più molti studenti e genitori pretendono cavillosamente spiegazioni.
Infine, solo una diffusa ipocrisia impedisce di ammettere che questi strumenti sono in molti casi inapplicabili. Nella mia scuola media, ad esempio, ci è stata distribuita, in vista degli scrutini, una griglia di valutazione delle discipline che era stata approvata all’inizio dell’anno. A ogni valutazione numerica (= voto), si fanno corrispondere varie precisazioni sull’ aspetto cognitivo e su quello comportamentale. Cosa significherebbe, per esempio, un 8? Vediamo:

ASPETTO COGNITIVO

Conoscenze: ha acquisito i concetti trattati, collegando le conoscenze, e li utilizza in contesti assegnati.
Logica e procedura: rielabora in modo critico e personale. Dimostra abilità logiche e procedurali.
Comunicazione ed esposizione: è corretto e sicuro nell’esposizione orale, grafica, scritta.
Comunica con proprietà di linguaggio ed in modo logico, utilizzando adeguatamente i linguaggi specifici.
Uso di strumenti e progettualità: sa usare vari strumenti e materiali in situazioni e contesti diversi, finalizzandoli al raggiungimento di uno scopo o alla risoluzione di un problema

ASPETTO COMPORTAMENTALE

Impegno: costante
Organizzazione del lavoro: autonoma e accurata.
Cura del materiale: puntuale ed accurata.
Partecipazione: collaborativa e proficua.
Interesse: costante vivace in modo

Ma cosa fa nella realtà l’insegnante alla fine del quadrimestre? Guarda il registro, fa una media delle valutazioni e eventualmente la arrotonda verso l’alto o verso il basso, tenendo magari conto di un andamento in progresso o in regresso. Quindi, a cosa mai gli può servire una griglia del genere? E il genitore ne ricava indicazioni precise sul significato di un voto? No, perché è impossibile una perfetta corrispondenza tra il livello raggiunto da ciascuno e uno schema astratto. Potrebbe aver raggiunto le conoscenze descritte anche senza un impegno costante; oppure essendo disordinato o avendo lavorato senza grande interesse, ma con volonterosa applicazione; la padronanza di alcune conoscenze potrebbe essere da 10, di altre da 6; e via combinando i vari elementi.
Insomma, il tentativo di mettere le brache alla realtà fallisce come sempre. Con buona pace della correttezza politico-pedagogica.

Giorgio Ragazzini