mercoledì 26 gennaio 2011

MA FORSE UN PO' DI CINA SI POTREBBE PURE IMPORTARE...

di Giorgio Ragazzini


(da "ilsussidiario.net", 26 gennaio 2011)

Al termine dell’articolo Perché non riusciamo ad essere cinesi senza la Cina?, analisi ad ampio spettro della crisi dei sistemi educativi occidentali, Giovanni Cominelli si chiede “quali provvisorie conclusioni pratiche” trarne, ma “escludendo che in Europa si possa adottare il modello cinese, fondato sulla repressione familiare e sociale, su un autoritarismo feroce e sulla fame, già praticato in Italia fino agli anni ’50 del Novecento”. E nessuno infatti lo propone. Ma è altrettanto certo che le esperienze asiatiche non ci debbano ugualmente far riflettere? Non è di questo parere un attento osservatore dello sviluppo asiatico come Federico Rampini, convinto che tra il rapido sviluppo economico sociale e il tipo di istruzione ci sia un legame molto forte. E che costituisca “una lezione preziosa per noi” l’importanza che in quei paesi viene data da genitori e insegnanti alla disciplina, al rigore, al rispetto per l’autorità, al sapere.
E credo che potremmo utilmente integrare il quadro delineato da Cominelli proprio chiedendoci se il rifiuto dell’autoritarismo ci esoneri dall’occuparci del principio di autorità e del suo ruolo attuale nella crescita intellettuale e morale dei giovani. Se la psicologia ci dice ormai senza apprezzabili eccezioni che figli e alunni hanno bisogno di trovare negli adulti guide solide e affidabili, allora bisogna assumersi senza incertezze questa responsabilità, anziché perseverare in concezioni “bambinocentriche”, che, nate magari come intuizioni utili e con le migliori intenzioni, sono poi diventate dannose o sotto la spinta di pressioni ideologiche o per un’applicazione semplicista e priva di senso critico. C’è una bella pagina a questo proposito del grande etologo Konrad Lorenz (e proprio dall’etologia ha preso le mosse uno dei massimi contributi del secolo scorso alla psicologia dell’età evolutiva, quello di John Bowlby). Scrive tra l’altro Lorenz in Gli otto peccati capitali della nostra civiltà: “L’assenza di un ‘superiore’ più forte dà al bambino la sensazione di essere indifeso in un mondo ostile. [...] Nessuno si identifica con un essere debole e sottomesso, nessuno è disposto a farsi prescrivere da lui le norme del comportamento e tanto meno a riconoscere come valori culturali quelli da lui venerati.” E oltre vent’anni dopo, la psicoterapeuta Giuliana Ukmar, in quello che è forse il primo, coraggioso libro a denunciare la deriva dell’educazione antiautoritaria (Se mi vuoi bene, dimmi di no), era solita chiedere ai genitori che si rivolgevano a lei: “Ditemi, chi comanda a casa vostra?”
Se è vero, come afferma Cominelli, che “occorre condurre un Kulturkampf sui fondamenti antropologici della nostra civiltà” e che si devono tener presenti tutti i molteplici aspetti in cui il problema “scuola” è articolato, credo che la crisi dei ruoli educativi non debba stare sullo sfondo, ma in primissimo piano. Essere genitori, come essere insegnanti, è oggi estremamente più difficile per molti motivi, non ultimo il crollo della natalità, che ha reso i bambini un “bene scarso” e come tale oggetto di attenzioni, ansie, aspettative talmente forti da rendere difficilissimo evitare che si trasformino in piccoli despoti, consapevoli di poter tiranneggiare a piacimento i loro familiari. Non è un caso se negli studi degli psicoterapeuti un tempo si lavorava ad alleggerire il fardello del Super-io, mentre oggi prevalgono il senso di onnipotenza unito alla fragilità, i bisogni compulsivi di essere al centro dell’attenzione, insomma, quelli che vengono tecnicamente definiti “disturbi narcisistici”.
Sbarazziamoci quindi di tutto quello che ci fa ancora snobbare, nella discussione pubblica e all’interno della scuola, temi come disciplina, serietà, rigore, responsabilità, rispetto delle regole. Anche perché, se condividiamo in buona parte con altri paesi sviluppati la crisi dei sistemi scolastici, è proprio sul terreno della legalità e del senso civico che la società italiana è drammaticamente indietro. Solo tirando il filo dell’educazione, anche il rinnovamento della didattica e la nuova formazione dei docenti acquisteranno la cornice indispensabile per avere successo.

Sullo stesso quotidiano telematico, da leggere, tra i vari articoli di interesse, un'intervista al medico Vittorio Lodolo D'Oria, che si occupa da anni di burnout degli insegnanti, ovvero di disagio mentale professionale (Dmp), quello che non molti anni fa avremmo più efficacemente definito"esaurimento nervoso". L'intervista è interessante sia per la drammaticità del quadro statistico, sia per il riferimento alla "sconfitta morale" della scuola del dopo '68. Leggi

Intanto, in qualche scuola si comincia a capire che la buona educazione è fondamentale e lo è altrettanto che gli adulti non rifiutino la responsabilità di sanzionarne adeguatamente la mancanza. Leggi

(GR)


sabato 22 gennaio 2011

È GIUSTO PREMIARE GLI STUDENTI PIÚ BRAVI ?

Il Corriere della Sera di giovedì ha dato ampio spazio alla decisione di un istituto tecnico milanese di premiare con 150 euro gli studenti che hanno ottenuto la media dell’otto nel primo quadrimestre, affiancando alla notizia un commento “a favore” di Maurizio Ferrera e uno “contro” di Silvia Vegetti Finzi. Tanto nell’articolo che nei commenti risulta chiaro che in una discussione sul tema si pongono due distinte questioni: se è opportuno o meno premiare il merito e in che modo farlo. Maurizio Ferrera coglie con grande chiarezza il tema di fondo, sottolineando che “nella scuola italiana la cultura meritocratica ha radici molto fragili”, anche se dovrebbe essere chiaro a tutti che è “l’unico antidoto che abbiamo contro il clientelismo e il parentismo”. Ben vengano dunque iniziative che si propongano di riconoscere il merito, anche con premi in denaro. Più ambivalente Silvia Vegetti Finzi che, dopo aver detto di condividere “in linea di massima” delle forme di incentivazione, conferma poi in diversi passaggi quanto scrive Ferrera sulle difficoltà che incontra la cultura del merito: “i premi individuali possono suscitare da parte dei perdenti (sic) indebiti confronti e incresciose contestazioni”; “esistono situazioni di disagio sociale e culturale (immigrazione, povertà, pendolarismo) di cui la mera graduatoria dei voti non può dar conto”; fino all’illuminante considerazione in cui la psicoterapeuta svela tutta la sua avversione per i primi della classe con il più classico dei luoghi comuni: “Sappiamo infine che la scuola premia spesso il conformismo, l’esecuzione passiva, l’apprendimento mnemonico a scapito delle più inquiete (!) capacità quali l’atteggiamento critico, la ricerca di nuovi percorsi nella soluzione dei problemi, l’immaginazione creativa”.
Stabilito che i “capaci e i meritevoli” vanno in qualche modo valorizzati e premiati, si tratta di capire in quale modo, premesso che i premi ai migliori devono essere dati nel contesto di valutazioni complessivamente eque e rigorose, dato che la promozione dei non meritevoli è il modo più sicuro per disincentivare gli studenti motivati e responsabili. Il premio in moneta non è da criminalizzare, come invece fa Marcello D’Orta (“A quando trenta denari per sussurrare nell’orecchio dell’insegnante il nome del compagno che ha copiato il compito di matematica?”); ma si tratta intanto di trovare una misura, cosa che l’ITI Feltrinelli non mi sembra abbia saputo fare. Nell’articolo del Corriere si legge infatti che l’Istituto già prevede un premio di 250 euro per chi consegue la media dell’otto nelle pagelle finali e basta fare un po’ di conti per capire che si è esagerato, anche considerati gli attuali bilanci delle scuole. Ma soprattutto si deve essere consapevoli che il riconoscimento del merito è importante in sé e che il premio può essere anche solo simbolico (una targa, una medaglia, un “oscar”), purché gli si conferisca valore e prestigio (1).

AR

(1) Un tempo, in un prestigioso collegio fiorentino dei padri Barnabiti, il miglior studente della Maturità veniva insignito del titolo di “Principe degli studi” e un suo ritratto veniva collocato in una apposita galleria. Persino troppo meritocratico.

lunedì 17 gennaio 2011

A PROPOSITO DI MADRI...

(da "TuttoscuolaFOCUS" n. 361)

Madri 'tigri' magari no, ma pecore è peggio

Ha fatto notizia il saggio della giurista americana di origine cinese Amy Chua, docente a Yale, pubblicato sul Wall Street Journal e intitolato “Inno di battaglia della madre tigre”.
Vi si sostiene che se si vuole ottenere risultati d’eccellenza nell’educazione dei figli occorrono una disciplina di ferro da parte dei genitori e la massima determinazione da parte dei figli nel conseguimento dell’obiettivo, per esempio quello di essere il migliore della classe, possibilmente in tutte le materie. Così, niente TV, palmari, messaggini, riunioni con amici, e molta capacità di sacrificio, applicazione negli studi, autodisciplina. Il tutto imposto ai figli in particolare dalla madre, che li segue più da vicino: una madre che deve comportarsi da ‘tigre’, sostiene Chua, se vuol fare davvero il loro interesse.
E’ sorprendente che la prof sino-americana sia riuscita a imporre tutto ciò a sua figlia, come scrive nel suo saggio, perché il contesto della scuola USA, e più in generale della società americana, non si presta certo a pratiche di questo genere. Può darsi – mancano notizie dettagliate in proposito – che la Chua si sia avvalsa di metodologie di insegnamento/apprendimento estremamente individualizzate come quelle dello homeschooling, abbastanza diffuso negli USA. Ma alle spalle delle scelte educative di questa ‘madre tigre’ si avverte una concezione della scuola e del ‘dovere’ tipica delle società e delle culture dell’estremo Oriente: quella che consente agli studenti cinesi e coreani di piazzarsi ai primi posti nelle indagini comparative IEA e OCSE-PISA.
Un modello difficilmente esportabile, perché affonda le sue radici in culture plurisecolari e in un senso del ‘dovere’ ormai sconosciuto nelle permissive e iperprotettive società consumistiche del mondo ‘occidentale’. Dove troppe madri ‘pecora’ (salvo diventare ‘iene’ con gli insegnanti se danno un brutto voto a propri figli ‘asini’) finiscono però per fare più danni delle madri ‘tigri’.

sabato 15 gennaio 2011

CITAZIONI - PROTEZIONE E BISOGNO DI VERITÀ NELL’ADOLESCENZA

(da NÉ ASINO NÉ RE. Capire i figli e fare la cosa giusta, di Osvaldo Poli, San Paolo, 2008, pp.158-59)

“Lo stile del dialogo paterno è caratterizzato da una minor timore di ‘ferire il figlio’, e proprio per questa ragione nell’adolescenza è preferito alla madre, il cui stile più indiretto lo fa sentire piccolo, bisognoso di essere mantenuto nella bolla protettiva in cui le cose che potrebbero farlo star male non devono esistere e non devono essere dette. [...] Mentre il sentire femminile e materno tende ad uccidere la verità per salvare il figlio, la sensibilità maschile (che è sempre presente anche nelle mamme ed in alcuni casi è prevalente in esse) tende a sacrificare il figlio per renderlo capace di riconoscere e accettare la verità. Per meglio dire: chiede al figlio di sacrificare - rinunciare - a quegli aspetti del suo carattere che gli impediscono di riconoscere ciò che è vero e ciò che è giusto. [...] Il padre aiuta dunque il figlio ad avere meno paura della verità, anche quando essa impone di ammettere l’errore, di assumere la colpa, di accettare le proprie responsabilità. La rinuncia a sentirsi padroni della verità, e l’accettazione di essere sottomessi ad essa, è indice di maturità psicologica e morale ed è esattamente ciò che rende le persone degne di stima.
La verità è spesso desiderata dal figlio come liberatoria, e non solo temuta, come sembrano pensare molti genitori, perché, come disse un ragazzo, «Ti dà il senso di quanto vali realmente, ti toglie la paura del confronto con gli altri ». Chi è disposto ad accettare il responso della realtà (la vera prova di iniziazione alla vita), non ha più paura di uscire dal guscio, di andare lontano, di affrontare la vita. Chi continua a temere la realtà e la verità, è sempre costretto a ‘fuggire’, ad evitare la prova, a barare al gioco della vita”.

sabato 8 gennaio 2011

CITAZIONI - LA NECESSITÀ DI UNA GUIDA AFFIDABILE SECONDO KONRAD LORENZ

(Tratto da Gli otto peccati capitali della nostra civiltà di Konrad Lorenz, pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 1973. Trae origine da una serie di conferenze tenute da Lorenz nel 1970 per una radio di Monaco.)


"Il riconoscimento della superiorità gerarchica non è di impedimento all’amore. Tutti noi dovremmo ricordare che, quando eravamo bambini, le persone da noi predilette non erano quelle di rango uguale o inferiore al nostro, ma quelle che consideravamo superiori e a cui eravamo sottomessi. Quando ripenso al mio amico Emmanuel la Roche, di quattro anni maggiore di me e morto precocemente, capo indiscusso della nostra banda di ragazzi dai 10 ai 16 anni che egli dominava con autorità giusta ma severa, ricordo ancora con chiarezza come a lui mi legasse non solo un sentimento di rispetto e il desiderio di veder riconosciuto da lui il valore delle mie azioni, ma anche un profondo affetto. Questo sentimento era inequivocabilmente dello stesso tipo di quello che mi avrebbe legato più tardi a certi amici più anziani di me o a maestri che veneravo. Vedere nell’esistenza di un naturale rapporto gerarchico tra due uomini una frustrazione che diventa impedimento alla formazione di sentimenti affettivi è una delle colpe maggiori della dottrina pseudo-democratica.
Dove manca questa gerarchia non potrà esservi neppure la forma più naturale di amore, quello che normalmente unisce fra loro i membri di una famiglia. A causa di questo principio educativo della ‘non frustrazione’, migliaia di bambini sono diventati infatti dei nevrotici infelici. Come ho spiegato nei lavori già citati, il bambino che vive in un gruppo privo di struttura gerarchica si trova in una situazione del tutto innaturale. Infatti, non potendo reprimere la propria tendenza, programmata nell’istinto, ad assumere una posizione di grado più alto, egli tiranneggia i genitori indifesi e si trova costretto al ruolo di capogruppo, nel quale non è per nulla a suo agio. L’assenza di un ‘superiore’ più forte dà al bambino la sensazione di essere indifeso in un mondo ostile, sensazione giustificata in quanto i bambini ‘non frustrati’ non piacciono a nessuno. Quando, in stato di comprensibile irritazione, egli cerca di provocare i genitori e di attirare su di sé la loro collera (nel linguaggio corrente si dice che ‘si tira dietro gli schiaffi’), il bambino non incontra la risposta aggressiva che istintivamente attende e in cui inconsciamente spera, ma urta contro il muro di gomma delle frasi pacate e pseudo-razionali. Nessuno si identifica con un essere debole e sottomesso, nessuno è disposto a farsi prescrivere da lui le norme del comportamento e tanto meno a riconoscere come valori culturali quelli da lui venerati. Soltanto quando si ama una persona dal più profondo dell’anima, e al tempo stesso la si rispetta, si è in grado di fare propria la sua tradizione culturale.
Una simile ‘figura paterna’ manca evidentemente a una altissima percentuale dei giovani di oggi. Troppo spesso il padre naturale non è all’altezza del compito e l’insegnamento di massa nelle scuole e nelle università impedisce che egli venga sostituito dalla figura di un venerato maestro."

martedì 4 gennaio 2011

SULLA VALUTAZIONE DEI DOCENTI È NECESSARIO UN SERIO RIPENSAMENTO

La sperimentazione del sistema di valutazione dei docenti e delle scuole elaborato per il ministero da Roger Abràvanel per ora non parte, causa il massiccio rifiuto da parte dei collegi. A Torino, su 118 scuole a cui è stata proposta la sperimentazione, solo una ha accettato. A Napoli, soltanto 5 su 625. “La Repubblica” parla di flop e sente alcuni docenti. Le resistenze irrazionali indubbiamente esistono, ma ci sono anche quelle ragionevoli. Si può invece scommettere che la cosa darà luogo a semplificazioni del tipo “Gli insegnanti rifiutano di farsi valutare”, senza però correlare il rifiuto con il tipo di valutazione che viene proposto. Pochi giorni or sono ne avevamo riparlato, riferendo anche il parere e le proposte di Giorgio Israel. Alla luce di questo primo risultato, chiediamoci nuovamente: cosa è secondo buon senso più utile per migliorare la scuola italiana? Premiare economicamente i migliori insegnanti, con procedure scarsamente condivise e probabilmente poco affidabili per la loro individuazione, o riuscire a intervenire nelle situazioni problematiche, che non hanno certo bisogno di tecniche sofisticate per emergere? Com’è noto, abbiamo sempre parteggiato per la seconda ipotesi, che consideriamo insieme più produttiva in termini di innalzamento medio della qualità e più accettabile dal mondo della scuola. Viene ora a confermare questa tesi anche la terza indagine dell’Istituto Iard (Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola), pubblicata dal Mulino e curata da Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin. Quest’ultimo, durante l’odierna puntata di Fahrenheit su Radio 3, ha detto che una notevole maggioranza degli insegnanti è favorevole a una valutazione che serva sia a individuare gli eventuali punti deboli dei docenti, in modo da consentire interventi di supporto, sia a sanzionare quelli che non fanno il loro dovere.

GR

domenica 2 gennaio 2011

CITAZIONI - È POSSIBILE BASARE L’APPRENDIMENTO SOLO SUGLI INTERESSI DEGLI ALLIEVI?

(Tratto da William Damon, PIÙ GRANDI SPERANZE. Contro la cultura dell’indulgenza in casa e a scuola, Longanesi e poi Euroclub, 1997, pp.143-145).

“La motivazione all’apprendimento si fonda su una base omogenea di stimoli interni ed esterni, compresi il sostegno, le aspettative, l’incoraggiamento e i voti degli insegnanti. Negli ultimi anni, l’espressione “motivazione intrinseca” ha assunto un’importanza enorme. [...] In tutto il mondo gli educatori sono convinti che il materiale scolastico debba motivare intrinsecamente il bambino perché egli possa trarne vantaggio. Ancora una volta, tuttavia, la questione non è così semplice. Anche le motivazioni estrinseche - spronare i bambini con premi, pressioni e altri incentivi - hanno un loro ruolo nel mondo reale dell’apprendimento. I programmi scolastici basati solo su motivazioni intrinseche non insegnano a superare le frustrazioni e la monotonia che accompagnano inevitabilmente il raggiungimento di un obiettivo. In breve, è un metodo che non insegna al bambino la disciplina di lavoro necessaria per raggiungere un traguardo e la vera padronanza della materia.
Alcuni studi recenti avallano questa conclusione. Da un confronto tra alcuni alunni coinvolti in programmi scolastici basati su motivazioni intrinseche e altri coinvolti in programmi con motivazioni più tradizionali come voti e compiti obbligatori, lo psicologo Mordecai Nissan ha rilevato che nel lungo periodo i risultati del secondo gruppo erano molto migliori. Oltre alla competenza essi avevano sviluppato la tenacia motivazionale a persistere anche quando una materia diventa difficile e noiosa. Gli studenti abituati a fare affidamento solo sulla propria spinta interiore spesso mollavano tutto appena l’interesse si affievoliva. Non erano in grado di raggiungere la soddisfazione che deriva da un lavoro duro e disciplinato."