domenica 27 febbraio 2011

BERLUSCONI E LA SCUOLA PUBBLICA

Le affermazioni di Silvio Berlusconi sulla scuola statale[1], fatte in questo momento con lo scopo non proprio recondito di risalire la graduatoria dei preferiti Oltretevere, hanno naturalmente provocato molte severe reazioni. È tra l’altro singolare che a screditare l’istruzione pubblica, in un momento in cui le si riconosce, con tutti i suoi difetti, il merito di aver contribuito in modo decisivo alla crescita civile dell’Italia unita, sia proprio il Presidente del Consiglio.
Su come sia configurata costituzionalmente la libertà di insegnamento (e sul fatto che la legge voluta dal Ministro Berlinguer preveda attualmente una disparità di regole tra pubblico e privato a favore di quest’ultimo), chi vuole può leggere o rileggere quanto scritto sul questo blog il 2 maggio scorso.
Tra i vari commenti, invece, ci piace segnalare quello pienamente condivisibile di Saro Salamone, preside del Liceo Visconti di Roma, un uomo di scuola le cui idee hanno molte affinità con le nostre e che tra l’altro ospitò nel suo istituto la conferenza stampa di presentazione della Lettera aperta ai partiti e ai candidati per le politiche del 2008 (Scuola: un partito trasversale del merito e della responsabilità).

Leggi l’intervista al prof. Salamone e di seguito una lettera aperta di Valerio Vagnoli (anche lui preside) al Presidente del Consiglio.


LETTERA APERTA DI UN PRESIDE AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

di Valerio Vagnoli

Signor Presidente del Consiglio dei ministri, nella certezza assoluta che mai Ella leggerà queste mie poche righe, tuttavia Le scrivo anche perché scrivere è utile innanzitutto a chi lo fa. Forse a differenza di Lei, ho letto da ragazzo, grazie proprio alla segnalazione di un docente della scuola pubblica, il Messaggio dell’imperatore di Kafka, e so benissimo come vanno queste cose. Continua a leggere


[1] “Ciascuno deve avere il diritto di poter educare i figli liberamente e liberamente vuol dire di non essere costretto a mandarli a scuola in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli educandoli nell'ambito della loro famiglia".

venerdì 25 febbraio 2011

“UNA PALESE MALEDUCAZIONE IMPERA...”

Ha la sua importanza il fatto che “La Repubblica” dedichi due pagine alla crisi educativa, dopo avere a lungo isolato il “laudator temporis acti” Mario Pirani, che, con la consueta libertà di giudizio, aveva apprezzato il Ministro Gelmini per i provvedimenti sulla condotta, come già aveva fatto con Fioroni.
La testimonianza di Marco Lodoli su quello che succede nelle sue classi è drammatica, sferzante l’ironia sul facile discettare di “autorevolezza, non autoritarismo”, esemplari i quadretti familiari con i figli iscritti al “Club dei Diritti Assoluti”. Deludente però il finale, dove ancora, nonostante tutto, schematicamente si contrappone l’amore alla “caserma”. Leggi.
L’articolo di Vera Schiavazzi, soprattitolato Professori e genitori riscoprono la disciplina, fa un quadro a più voci, però il tono prevalente lo danno quelle favorevoli a una svolta antibuonista. Leggi.
Sul “Corriere della Sera”, infine, Cesare Segre, notissimo italianista, prende spunto anche lui dall’ultimo libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, per una serrata requisitoria contro la “scuola facile” e a favore di un rivalutazione delle discipline e “dello studio astratto e teoretico”. I due punti di vista - l’ingrediente della “buona educazione” come premessa ineliminabile di una scuola che funzioni e il rigore degli studi - si completano a vicenda. A margine possiamo soltanto precisare che la giusta presa di distanza dai facili slogan “scuola del fare, del saper essere, del saper stare insieme”, non deve farci dimenticare che è necessario offrire alle diverse intelligenze, accanto alla scelta liceale a cui probabilmente pensa Segre, la più vasta gamma possibile di qualificate opzioni formative all'uscita dalla scuola media, con la valorizzazione e il riconoscimento di una pari dignità - anche culturale - dei percorsi più basati proprio “sul fare”, quelli dell’istruzione e della formazione professionale. Leggi.

GR

giovedì 24 febbraio 2011

UNA PRIMA ADESIONE ALLA VIA AUSTRIACA

Ci è stato segnalato un intervento del professor Maurizio Tiriticco (L’Austria insegni!) che parte dell’annuncio austriaco di eliminare le bocciature per delineare un’analisi della scuola italiana e per avanzare una serie di proposte che dovrebbero rivoluzionarla.
Si tratta di una buona sintesi di quell’insieme di idee che, sottolineando la responsabilità dell’istituzione e dei docenti, tendenzialmente àbroga - insieme al merito - quella degli allievi, che per nascere e rafforzarsi deve invece essere via via messa alla prova in misura adeguata all’età. I ragazzi, in questa visione, sono visti come oggetto di una buona o di una cattiva didattica e non - ovviamente entro certi limiti - come soggetto che si impegna o non si impegna, che accetta o rifiuta, che collabora o non collabora. Tra parentesi, l'autore cita in modo incompleto l'articolo 34 della Costituzione, che non garantisce senz'altro a tutti "di raggiungere i più alti gradi degli studi". Sono "i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi" che hanno questo diritto. La nuova scuola di Tiriticco va molto oltre la proposta austriaca nella parte propositiva, una vaga utopia di chiara impronta russoiana:
"Le classi d’età dovrebbero e potrebbero essere sostituite da gruppi di interesse e di motivazione, attivi per un dato periodo di tempo attorno a determinate iniziative: gruppi che nascono, maturano, invecchiano per infine sciogliersi e permettere ai singoli membri di riaggregarsi in altri nuovi gruppi, con altri interessi, con altre finalità: che saranno periodicamente rinnovati attorno a nuove ricerche, nuovi obiettivi; gruppi in cui l’età dei membri sia solo una variabile tra tante altre".
Degli insegnanti non si parla, ma si possono immaginare aggirarsi come premurosi facilitatori da un gruppo all’altro. Si prende così la scorciatoia del principio del piacere - tipica di chi sottomette il sogno alla cosa - al posto della via della realtà. I ragazzi non si formano per magia naturale appena li lasciamo liberi di farlo a proprio piacimento e secondo quello che detta loro il cuore. Gli adulti (genitori e insegnanti in particolare) non possono sottrarsi al loro ruolo di guida attiva e propositiva senza fare gravi danni, benché a volte l’esercitarlo possa risultare molto impegnativo e anche emotivamente costoso.

lunedì 21 febbraio 2011

LA SCUOLA FELIX AUSTRIACA ABOLIRÀ LE BOCCIATURE

Dal 2012 in Austria non si boccerà più. Ne riferisce anche “Tuttoscuola” discutendone in termini possibilistici. Per i ragazzi che ne hanno bisogno, verrà attivato “un sistema di corsi di recupero e rinforzo, in particolare per il tedesco, la matematica e le lingue straniere”. Ma se qualcuno non si impegna neppure in questi corsi?
In attesa di saperne di più, e sperando che lo stesso orientamento ad abolire il sintomo invece di curare la malattia non venga esteso ad altri settori della società, non è improbabile che anche da noi si formi un partito austriacante, a sostegno di questa nuova versione del famigerato “diritto al successo formativo”.
Prescindendo dall’indiscutibile necessità di elevare il livello qualitativo della scuola attraverso una molteplicità di interventi (che via via abbiamo indicato su questo blog), l’unica possibile riforma seria della bocciatura (però assai complessa) si avrebbe organizzando la scuola superiore per corsi (o livelli), invece che per classi, un po’ come succede all’università. Gli studenti ripeterebbero solo i corsi in cui avessero conseguito risultati insufficienti. In questo modo avremmo anche un progresso sul piano della trasparenza, perché si disincentiverebbe il mercato di compromessi e di falsificazioni che tanto danneggiano la credibilità dei consigli di classe in occasione degli scrutini finali.

Fa discutere anche la proposta di Paola Mastrocola, contenuta nel suo nuovo libro, TOGLIAMO IL DISTURBO. Saggio sulla libertà di non studiare. Marco Imarisio, sul “Corriere della Sera”, la sintetizza così: “Una preparazione di base eccellente dagli 8 [?] ai 14 anni, e poi liberi tutti di scegliere tre diverse opzioni. Una scuola per il lavoro, una per la comunicazione e infine una per lo studio”. Detta così non è il massimo della chiarezza, specie per quella “scuola della comunicazione”, forse riservata alla nuova specie dei “nativi digitali” a cui ormai apparterrebbe una parte delle nuove generazioni. Più chiaro l’insieme dei valori a cui l’insegnante scrittrice afferma di ispirarsi[1]: libertà, scelta, individuo, responsabilità. Siamo quindi vicini al nostro modo di vedere la scuola (anche se non è indifferente il modo in cui poi concretamente si declinano). Una scuola che nella formazione dei giovani dovrebbe perseguire non l’uniformità, ma l’uguaglianza delle possibilità di sviluppare i propri specifici talenti, fermo restando l’obbligo formativo a 18 anni. In questo un ruolo decisivo deve avere la formazione professionale, sempre più diversificata e altamente qualificata. Ma anche l’apprendistato può dare una chance ad alcuni ragazzi, insieme all’alternanza “scuola-lavoro”. E poi Istituti professionali non più configurati come simil-tecnici, ma ricchi di operatività e di laboratori. Perché la libertà di scelta della scuola superiore diventa una presa in giro se le scelte sono troppo poche. Risultato: un’alta percentuale di insuccessi e di abbandoni. Speriamo quindi che in Italia si cerchi sempre di più di curare le malattie della scuola nelle loro cause, invece di occultarle con i falsi 6, le promozioni regalate o, non sia mai, con la ripetenza vietata per legge. (GR)

[1] Dal sito “WUZ, cultura e spettacolo”

venerdì 18 febbraio 2011

LA PROFESSORESSA DI PALERMO LASCIATA SOLA DALLA SCUOLA

La vicenda dell’insegnante palermitana, che, come ben riferisce tra gli altri “Avvenire”, è stata condannata in appello a un mese di detenzione - sospesa e condonata - per abuso di mezzi di correzione contro un bulletto, è veramente istruttiva di come vanno spesso le cose nella scuola e nella società del nostro paese. Istruttiva intanto per la lunghezza di quello che certo non è un maxiprocesso: l’episodio risale al 2006, la sentenza di primo grado è del giugno 2007 (e fu di assoluzione), ma ci sono voluti altri quattro anni per arrivare al giudizio di appello. Il che costituisce una forma di illegittima pena accessoria che colpisce in Italia quasi tutti gli imputati.
Istruttiva, la vicenda, anche per il contesto strettamente scolastico, tipico di moltissimi istituti: benché negli ultimi anni, grazie ad alcuni provvedimenti di Fioroni e della Gelmini, l’idea che un comportamento scorretto possa anche essere sanzionato abbia fatto dei passi avanti, è ancora molto diffusa la convinzione che la punizione sia più espressione di autoritarismo, di incapacità di educare e magari di un certo sadismo, piuttosto che la naturale ed educativa conseguenza di un comportamento scorretto, e magari gravemente scorretto (su questa tendenza, vedi l’illuminante commento di Maria Rita Parsi). Il logico risultato di questo atteggiamento è spesso l’accumularsi inefficace di rimproveri e magari di note sul registro, senza che ci si decida a fare nulla di più. Esattamente quello che era successo nel 2006 a Palermo. Un ragazzo con numerosi “precedenti”, incoraggiato dai troppo blandi provvedimenti (le cronache dicono ora sette ora dodici note sul registro), insieme a due amichetti insulta e umilia un compagno definendolo gay e femminuccia e impedendogli di entrare nel bagno dei maschi. La professoressa di lettere li sgrida e i due “compari” chiedono scusa alla vittima. Lui no, la guarda storto e si rifiuta tassativamente di scusarsi. La docente, decisa a non lasciare impunita una grave mancanza, gli impone di scrivere cento volte “Sono un deficiente”. Già allora scrivemmo che la frase avrebbe potuto piuttosto essere "Mi sono comportato da deficiente", ma che la vera domanda da farsi era: se la scuola avesse regolarmente sanzionato le infrazioni gravi con qualche giorno di sospensione, anziché regolarmente passarci sopra, la docente avrebbe sentito il bisogno di inventarsi su due piedi una punizione il più possibile adeguata alla gravità del fatto? Del resto va detto che in questo caso molti si schierarono con la professoressa. E meritoriamente l’Associazione radicale “Andrea Tamburi” di Firenze lanciò su nostra proposta una sottoscrizione di solidarietà per le spese legali, che raggiunse in poco tempo i 3529 euro e fece del caso una notizia di prima pagina sul "Corriere". Nel comunicato stampa si sottolineava appunto che “da molti anni gli insegnanti sono stati lasciati colpevolmente soli alle prese con il problema della condotta, che non di rado rende quasi impossibile il lavoro in classe. In questa solitudine la docente palermitana ha ritenuto necessario assumersi la responsabilità e l’onere – che sarebbe non solo della scuola italiana, ma dell'intera collettività – di difendere l'aggredito e punire l'aggressore.”
Da qui deriva il terzo elemento di riflessione: mentre la collega sta pagando le conseguenze di un’assunzione di responsabilità, quelli che alle loro responsabilità si sottraggono - per quieto vivere o per convinta adesione al perdonismo pedagogico - non corrono nessun rischio. Ma non esiste per gli insegnanti (e altrove) un dovere di prendere provvedimenti, quando ce ne siano gli estremi? La scuola dovrebbe riflettere molto sul prezzo che si paga in termini di “diseducazione civica” delle nuove generazioni, se troppo spesso non reagisce con fermezza ed equilibrio ai comportamenti sbagliati di chi è affidato alle sue cure.

Da leggere sullo stesso argomento anche il Buongiorno di Gramellini sulla “Stampa” di ieri.

Sul “Corriere della Sera” di oggi, Giovanni Belardelli mette a confronto Italia e Germania per come l’opinione pubblica giudica il “copiare”.

Da segnalare infine, da “ItaliaOggi”, i risultati di una ricerca sugli adolescenti condotta dalla Società Italiana di Pediatria, secondo i quali c’è da parte loro una richiesta di sentire maggiormente la guida dei genitori e un ampio consenso verso il rispetto delle regole.

GdF

domenica 13 febbraio 2011

LA FABBRICA DEGLI IMMATURI. OVVERO: A CHE ETÀ SI DIVENTA ADULTI IN ITALIA?

A conferma di quanto leggi e sentenze possano contribuire a deresponsabilizzare i giovani (vedi i post precedenti), dal servizio di copertina del “Venerdì di Repubblica”, I post bamboccioni d’Italia che portano i genitori in tribunale (ancora non disponibile in rete), apprendiamo tra l’altro che, secondo i dati dell’Associazione dei matrimonialisti italiani, “quasi il 10% delle procedure familiari italiane riguarda vertenze intentate da ultramaggiorenni contro genitori pensionati”. A incoraggiare certi figli su questa strada, ci si è messa anche una recente sentenza della Corte di Cassazione, che, contro i precedenti gradi di giudizio, ha ribadito l’obbligo di un padre di Ferrara di versare gli alimenti a una figlia laureata e sposata. E tutto questo avviene in un paese in cui l’età media di uscita dalla famiglia è di oltre 31 anni per i maschi e di 29 e mezzo per le femmine, nettamente superiore a quelle di Germania, Regno Unito e Francia, che si collocano intorno ai 25 anni.
In ogni caso, e pur tenendo conto che da anni è diventato più difficile per un giovane trovare lavoro, obbligare i genitori per legge a mantenere i figli molto oltre la maggiore età (come anche legittimare l’occupazione di una scuola) significa che il legislatore e una parte dei giudici hanno perso completamente di vista, ostacolandola di fatto gravemente, la relazione educativa. La stragrande maggioranza dei genitori, infatti, troverà del tutto naturale aiutare i figli, ma deve toccare a loro valutare se questo continua a essere opportuno. La sola possibilità di “chiudere il rubinetto” a un figlio pigro e poco responsabile, per esempio, può spingerlo a fare un passo decisivo verso l’autonomia. Viceversa, come sottolinea Gian Ettore Gassani, presidente degli avvocati matrimonialisti, in Italia, a differenza del resto d’Europa, si sta andando verso il principio del “mantenimento infinito”, e si costringono persino persone ormai nella terza età “a sobbarcarsi sacrifici economici e patrimoniali che il comune sentire stenta a comprendere.”
Commenta la sociologa Chiara Saraceno: “Ci si lamenta dei bamboccioni, ma ci si guarda bene dal cambiare la norma di legge che definisce i familiari tenuti agli alimenti, una categoria che, per numerosità delle persone (oltre ai genitori nei confronti dei figli e questi nei confronti di quelli, anche i nonni e gli zii nei confronti dei nipoti e i generi e le nuore nei confronti dei suoceri) e durata indefinita dell’obbligo, non ha pari in nessuno dei paesi sviluppati”.

giovedì 10 febbraio 2011

OCCUPAZIONI: IL PARERE DEL PROFESSOR ZAPPELLA SULLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

Michele Zappella, neuropsichiatra infantile e docente nell'Università di Siena, è molto noto soprattutto per i suoi studi sull'autismo. Negli ultimi anni ha approfondito il fenomeno del bullismo. Per il nostro blog ha scritto questo commento alla proposta di archiviazione di cui abbiamo parlato nel precedente post.


La decisione della Procura milanese sulle occupazioni suscita grande perplessità, creando un precedente che può ripetersi, e ha vari risvolti. Quello legale è ben commentato da Giorgio Ragazzini e lo condivido in pieno, aggiungendo che mi auguro che la decisione del pm di turno venga impugnata dal giudice competente. Ma vi sono altri punti di vista che vanno presi in considerazione. Certo, per dirla col pm, la scuola è 'anche' degli studenti: forse, sarebbe stato meglio dire che la scuola è stata fatta 'per' gli studenti ma non è di loro proprietà: la scuola appartiene alla comunità e va gestita da persone qualificate (i dirigenti) cui la comunità stessa ha conferito un mandato con regole precise e condivise. La scuola ha innanzitutto lo scopo di trasmettere cultura e democrazia, obiettivi che si raggiungono anche aprendo dibattiti, chiedendo democraticamente un'aula per svolgerli, non occupando. Quella della occupazione è una pseudocultura vecchia e stantìa, nata nelle università nelle quali gli occupanti, però, sono tutti maggiorenni, e in quarant'anni abbiamo avuto modo di constatare quanto spesso sia una palestra di conformismo. Viceversa, nelle scuole prese in esame dal pm milanese i protagonisti delle occupazioni sono dei minorenni e, prima di archiviare la denuncia, il pm di Milano aveva il dovere di valutare e prevedere tutti i rischi di qualunque tipo, dagli spinelli alla promiscuità, impliciti nell'abbandonare a questi giovani, di giorno e di notte, i locali della scuola, chiusi con lucchetti e catene.

martedì 8 febbraio 2011

OCCUPAZIONI: UNA GRAVE DECISIONE DELLA PROCURA MILANESE

Occupare la scuola dal pomeriggio alla mattina, con la partecipazione di ragazzi mascherati, anche provenienti da altre scuole, chiuderne gli accessi con catene, lucchetti e mobili appoggiati alle porte, così da rendere necessario l’intervento della Digos per entrare: per la procura milanese è tutto regolare. La richiesta di archiviazione si basa sul presupposto giurisprudenziale che la scuola appartenga “anche” agli studenti, come se non esistessero leggi, regolamenti, orari di accesso e precise responsabilità del dirigente. Su questa distorta base concettuale anche gli uffici postali, le questure, i tribunali, gli ospedali, i ministeri, il Parlamento e via dicendo, potranno essere occupati a proprio piacimento dai contribuenti (che a molto maggior ragione possono considerarsene proprietari), al di fuori di qualsiasi orario previsto e di ogni altra regola. Ne escono male la scuola, lo Stato di diritto, il buon senso e i dirigenti scolastici, sempre più soli con crescenti responsabilità a cui sono impossibilitati far fronte. Leggi
(GR)

domenica 6 febbraio 2011

CITAZIONI - UNA PAROLA AL BANDO: “PUNIZIONE”

Avvertenza: una citazione non è una teoria e quasi mai può sostituire la lettura del testo in cui è inserita. Ha senso come invito a leggere un libro interessante o come spunto per una discussione sul tema, più che sulla lettera di affermazioni fuori contesto.

Il testo citato in questo caso è Elogio della disciplina, di Bernhard Bueb (Rizzoli), filosofo e teologo, a lungo preside di un famoso collegio privato tedesco. Il capitolo da cui è tratta la citazione ha un titolo anche più sconveniente di quello del libro: Per educare con giustizia bisogna essere disposti a punire.
Si propone questa lettura per mettere ancora una volta in discussione uno degli stereotipi meglio solidificati nella coscienza contemporanea: la falsa contrapposizione tra “educazione” e “punizione” (o del suo sinonimo un po’ meno indigeribile: “sanzione”), mentre questa è uno dei possibili strumenti di quella. Una contrapposizione che non vale solo a scuola o in famiglia (superfluo fare esempi), ma è dilagata in ogni angolo della società, tanto che la evocano non soltanto politici smaniosi di mostrarsi comprensivi , ma perfino molti tutori dell’ordine, pronti a giustificare così la loro inazione. (A chi gli faceva notare che molti ciclisti sfrecciavano pericolosamente senza luci davanti ai loro occhi nella zona pedonalizzata di Firenze, due vigili urbani risposero: “Eh, ci vorrebbe più educazione!”). Analoga benevolenza hanno riscosso per decenni e forse ancora riscuotono - l’elenco è incompleto - i “portoghesi” sugli autobus, gli italiani che non pagano il canone Rai (il 30%), i padroni dei cani che non ne rimuovono “le fatte” e i cosiddetti graffitari, che negli anni 70 un’enciclopedia per le scuole medie additava come esempi di insubordinazione a un ordine oppressivo. (GR)

“Non si possono mantenere la giustizia e l’ordine nella società senza ricorrere a delle pene: è un fatto inoppugnabile. Tuttavia nel mondo della pedagogia dall’inizio del XX secolo si è diffusa l’idea che l’educazione debba fare a meno delle punizioni, poiché esse generano angoscia e l’angoscia è nemica di ogni processo educativo efficace. L’educazione dovrebbe quindi riuscire a modificare il comportamento usando la comprensione[...]. La condanna dei castighi come strumento pedagogico incontrò più ampio favore nel tardo dopoguerra, perché le esperienze del nazionalsocialismo avevano gettato maggior discredito sulle punizioni. [...] A mio parere è necessario operare una distinzione tra angoscia e paura. I bambini devono poter crescere liberi dall’angoscia, ossia quello stato d’animo opprimente che viene provocato da minacce indefinite, mentre la paura è sempre riferita a qualcosa di concreto: punizioni ben chiare, quantificabili e dettate dalla sollecitudine generano nei bambini paura, non angoscia. Inoltre i bambini sanno affrontare la paura della punizione quando essa provenga da una persona affettuosa e sollecita, e anzi devono imparare a sopportarla, poiché fa parte del processo di crescita e di preparazione alla vita. Chi invece dubita della legittimità o dell’utilità dei castighi dovrebbe rendersi conto che le punizioni sono indispensabili anche nella vita degli adulti. A chi non è mai capitato in macchina di rallentare solo dopo che qualcuno gli aveva lampeggiato? Quanti bravi cittadini pagherebbero meno tasse del dovuto se non avessero paura delle sanzioni dello Stato? In generale dobbiamo riconoscere che un’educazione che non ricorra a delle pene pretende troppo da adulti e ragazzi. [...] I castighi offrono ai giovani sostegno e orientamento, quando tutti si sforzano di comportarsi in modo giusto.” (Bernhard Bueb)

Leggi anche la recensione del libro di Bueb uscita sul “Corriere della Sera” il 25 giugno del 2007: Ci ha rovinati Hitler. E il Sessantotto.

martedì 1 febbraio 2011

SHOCK DA LAPIS?

Un altro straordinario esempio di come la giusta attenzione ai sentimenti del bambino (e qui anche dei genitori), non sorretta dal buon senso e guidata anzi da paure e sensi di colpa, sfoci in autentiche assurdità. A riprova del disorientamento che affligge la scuola e la società in fatto di educazione, dalla quale non pochi vorrebbero ancor oggi eliminare qualsiasi prova, sfida o frustrazione, con il risultato di incrementare esponenzialmente proprio la fragilità che si pensa di prevenire.

(Da “TuttoscuolaFOCUS” n. 364)

C'era una volta la matita rossa e blu

Fino a pochi anni fa i compiti dei bambini delle scuole elementari (ma non solo) erano corretti con la classica matita rossa e blu: il colore rosso indicava gli errori meno gravi, il blu quelli gravi e gravissimi.
Colori non più adeguati al nostro tempo, stando a un bella
inchiesta di Annachiara Sacchi, pubblicata nel Corriere della Sera di sabato 29 gennaio. Colori troppo aggressivi, che creano “sensi di colpa e angosce”, dice l’autrice del servizio, ma non tanto negli alunni quanto e soprattutto nei loro genitori.
Meglio il rosa o il verde, dice una delle maestre intervistate, perché hanno un impatto emotivo meno forte sulla fragile psicologia dei genitori di quest’ultima generazione, che percepiscono gli errori dei figli come se fossero propri: la prova di una loro inadeguatezza. E quindi meglio usare colori più tenui, e accettare di dialogare con i genitori non solo sul profitto scolastico dei figli ma sulla loro personalità, il carattere, le fragilità.
Sarà anche vero che i genitori di oggi sono più insicuri e ansiosi di quelli di ieri (molte sono le testimonianze che lo confermano). Ma è questa sorta di narcotizzazione delle correzioni la via maestra per aiutare i genitori e i loro figli ad affrontare nel modo migliore l’impegno scolastico? Riteniamo di no: meglio essere franchi e ‘leggibili’ sia con i genitori sia con gli alunni. È nel loro interesse.