“Corriere Fiorentino”, 19 gennaio 2017
Caro direttore,
come ricordato dal Capo dello Stato nel
messaggio di fine anno, «l’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si
propagano nella società, intossicandola. Una società divisa, rissosa e in preda
al risentimento, smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami,
minaccia la sua stessa sopravvivenza». Parole pronunciate dal Presidente
Mattarella, non a caso all’indomani di una campagna referendaria che sul piano
della discussione pubblica ha raggiunto forse il livello più basso della storia
repubblicana per faziosità e disinformazione. Tanto che uno psicanalista
attento ai fenomeni sociali come Massimo Recalcati ha parlato di un «godimento
della distruzione» che sembra essersi impossessato di parte della società
civile. Viene da chiedersi quanti italiani siano consapevoli che ogni cittadino
adulto ha, ciascuno nel suo ambito, una responsabilità educativa nei confronti
dei giovani. Non molti, si direbbe; e le espressioni «dare il buon esempio» o
«il cattivo esempio» sembrano da qualche anno sparite di circolazione, quasi
costituissero un insopportabile intralcio all’inalienabile diritto di
esprimersi dell’individuo. Del resto lo stesso servizio pubblico ha da tempo
sdoganato in qualsiasi orario termini prima rigorosamente confinati nei
discorsi fra amici e colleghi. Persino alcuni insegnanti concorrono su facebook
alla trasformazione di internet «in un ring permanente, dove verità e
falsificazione finiscono per confondersi», per citare ancora Mattarella;
dimenticando che un loro compito essenziale sarebbe quello di promuovere lo
spirito critico, la conoscenza dei problemi, la capacità di argomentare con
efficacia, ma anche col necessario rispetto per gli interlocutori. Non c’è
dubbio, però, che le maggiori responsabilità della diseducazione al civile
confronto delle idee sono di chi gode della maggiore presenza mediatica, tra
cui i non pochi politici che falsificano o distorcono le idee altrui e fanno un
uso sistematico dell’insinuazione, del processo alle intenzioni, dell’irrisione
e dell’insulto nei confronti degli interlocutori. Il tutto nel quadro di
un’ipersemplificazione dei problemi politici e sociali, che allontana dal
necessario approfondimento; e se ne vede il riflesso anche nelle sconclusionate
parole d’ordine degli studenti che occupano le scuole. Un’indiscriminata
polemica contro «la casta» è servita come rampa di lancio per l’antipolitica,
spingendo i ragazzi a fare di ogni erba un fascio e a condannare senza appello
tutti quelli che si dedicano alla cosa pubblica. Ma è quasi certo che così si
ottiene un effetto molto diverso dall’auspicato rinnovamento, perché i migliori
talenti giovanili si guarderanno bene dall’impegnarsi in politica, in quello
che per troppi è oggi un club di profittatori e di inaffidabili. Per uscire da
questa situazione, sarebbe utile, anzi doveroso, che i responsabili delle
istituzioni pubbliche facessero l’esercizio di agire e parlare come se fossero
costantemente osservati dai bambini e dai ragazzi delle scuole, che si
sentissero cioè insegnanti di educazione civica in atto. Valutando loro stessi
se stanno dando o meno «il buon esempio».
Giorgio
Ragazzini