mercoledì 31 maggio 2017

I SOPRAVVISSUTI DEL ‘68 E QUELLA MIOPIA SULL’ ITALIANO A SCUOLA

È la lingua che fa eguali, proprio per questo con gli studenti bisogna essere più rigorosi.

Sono passati quasi quattro mesi dall’appello di oltre 600 docenti universitari che chiedeva al Governo di prendere provvedimenti «contro il declino dell’italiano a scuola». Una situazione così preoccupante da costringere molte università a organizzare veri e propri corsi di recupero per le matricole. Se ne è riparlato anche al liceo Tasso di Roma, dove il Gruppo di Firenze, promotore dell’appello, ha convocato un incontro dopo aver constatato il silenzio del Governo (ma, a dire il vero, anche di tutte le opposizioni) su questo tema. Conforta tuttavia un invito di queste ultimissime ore da parte della ministra Fedeli ad un incontro che finalmente si spera possa contribuire a cambiare la didattica dell’italiano e, speriamo, non solo di questo. Non si può comunque rinunciare a fare il possibile per risollevare le sorti della nostra lingua: senza dover scomodare Machiavelli o Manzoni, la stessa sopravvivenza della nostra identità culturale trova i suoi punti di riferimento imprescindibili proprio nella correttezza e nella proprietà del linguaggio scritto e parlato. All’incontro hanno partecipato anche diversi autorevoli firmatari, che ancora una volta hanno denunciato quanto poco ci si preoccupi per migliorare le sorti dell’Italiano. In particolare si è sottolineato come da decenni il Ministero abbia rinunciato al suo ruolo di orientamento, di sollecitazione e di verifica dei risultati raggiunti, addossando in gran parte le responsabilità di tutti i fallimenti della didattica alla inadeguatezza dei docenti e dei dirigenti. Le responsabilità sono invece da ricercare innanzitutto in una direzione politica che, per timore dell’impopolarità o per l’influsso di teorie pedagogiche sbagliate, ha rinunciato a essere esigente sul raggiungimento degli obbiettivi che rappresentano la base della nostra cultura, in primis quello dello scrivere correttamente. Si è confermata anche l’opportunità di verificare l’adeguatezza o meno delle Indicazioni nazionali che da anni hanno sostituito i tradizionali e consolidati Programmi scolastici e di prendere tutti i concreti provvedimenti per invertire la tendenza all’impoverimento della nostra lingua. È stato opportunamente ricordato, a conferma di questa tendenza, che circa il 70% dei docenti impegnati nei concorsi per entrare di ruolo non è stato ammesso alle prove orali anche a causa della loro pessima conoscenza della lingua italiana. Non meglio vanno in genere i concorsi per avvocati e per magistrati. Per questi ultimi è addirittura capitato che proprio a causa degli errori madornali nell’italiano la quantità degli ammessi agli orali sia stata più bassa dei posti messi a concorso! Si deve inoltre aggiungere che da molto tempo gli addetti ai lavori di Viale Trastevere si riconoscono in una certa pedagogia di ascendenza sessantottina, che insiste nello sponsorizzare metodologie di apprendimento che pretendono di non far durare fatica agli allievi, evitando il lavoro ripetitivo e lo studio mnemonico, nonché minimizzando l’importanza dell’ortografia e della sintassi soprattutto nella scuola di base; competenze che è poi difficile recuperare negli altri cicli scolastici. Un insegnamento del genere facilita l’esclusione sociale proprio di chi solo nella scuola, avendo retroterra familiari culturalmente ed economicamente inadeguati, dovrebbe trovare quelle competenze linguistiche indispensabili per acquisire la dignità di cittadino e di persona aperta al dialogo. Come diceva qualcuno, è proprio vero che è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero. Ma i sopravvissuti al ‘68 e i loro eredi sono troppo accecati dalle loro certezze per accorgersi che una scuola che non prepara, soprattutto nelle competenze linguistiche, è una vera e propria scuola di classe. Esattamente quella che non vogliamo e che non vuole la nostra Costituzione. E per questo, proprio per questo molti di noi, di sicuro chi scrive, hanno scelto senza pentimenti la via dell’insegnamento.
Valerio Vagnoli
("Corriere Fiorentino", 31 maggio 2017)

sabato 13 maggio 2017

SE AL MINISTRO STA A CUORE IL SÌ DEI SINDACATI

Il silenzio del mondo della scuola, in particolare di gran parte dei vertici ministeriali, sui gravi episodi di boicottaggio dei test Invalsi da parte di intere classi conferma una tendenza a non prendere posizioni sgradite a chi da anni ispira queste forme di protesta e irride al rispetto della legge infrangendola e permettendo che venga infranta impunemente. Sarebbe doveroso chiarire che il dissenso su queste prove è legittimo, solo che non può essere esercitato né fomentato in forme illegali. Invece l’attuale ministra sembra in sintonia con molti suoi predecessori, che di fronte a comportamenti inaccettabili messi in atto dagli studenti, ma anche da alcuni dirigenti e docenti che non vogliono sanzionarli, hanno fatto finta di nulla, adottando la regola aurea del tirare a campare il più a lungo possibile. Non a caso da decenni la più instabile tra le cariche ministeriali è proprio quella dell’Istruzione, dato che i presidenti del consiglio solitamente non sono disponibili a prendere posizione nel campo minato della scuola e preferiscono sacrificare un ministro piuttosto che scontrarsi con la protesta nelle scuole. Per non rischiare la fine anticipata del loro mandato, i ministri dell’istruzione hanno un metodo sicuro: quello di restare in sintonia con i sindacati della scuola. Dai quali gran parte dei docenti e anche molti dirigenti si sentono inspiegabilmente garantiti, pur avendo in questi decenni perduto prestigio, considerazione e il giusto compenso per un lavoro sempre più insostenibilmente gravoso. Così va il mondo scolastico, come ben sa l’ex ministro Luigi Berlinguer, che si fidò fino in fondo della Cgil quando volle creare, su proposta di quest’ultima, una carriera per i docenti attraverso il cosiddetto «concorsaccio»: strumento questo pensato e progettato da gente che della scuola e dei docenti dimostrò di avere un rispetto e una considerazione pressoché inesistenti. E come ben sa la ex ministra Giannini che per aver cercato di scalfire lo strapotere sindacale sul mondo scolastico è stata alla fine liquidata unitamente a gran parte dell’anima innovativa contenuta nella legge 107, quella della cosiddetta Buona scuola. Pertanto i silenzi della ministra Fedeli non mi stupiscono. Ha taciuto anche quando è stata chiamata a rispondere sulla necessità di recuperare le competenze di base in italiano di troppi studenti, competenze che sono il fondamento della nostra cultura e della nostra appartenenza a una comunità che senza la lingua rischia di disintegrarsi. Sebbene il tanto da lei venerato don Lorenzo Milani ritenesse che solo l’uso e la conoscenza corretta della lingua italiana rendono gli uomini uguali, di fronte all’appello di oltre settecento intellettuali italiani la Fedeli non ha dato alcuna risposta concreta, forse per non entrare in conflitto con certa sinistra anche sindacale che immediatamente si è schierata contro quell’appello. Perché la grammatica, secondo le logiche dell’ideologia, ma non della didattica, rappresenta ancora per qualcuno la sopravvivenza di un passato che deve essere sepolto e dimenticato a vantaggio della libertà creativa dei bambini. A ciò si aggiunga la necessità «politica» che il governo ha di ricucire i rapporti con i sindacati e tutto sembra tornare perfettamente. Insomma il ritorno al passato sembra quanto mai necessario, salvo che per la grammatica e per l’ortografia.
Valerio Vagnoli
"Corriere Fiorentino", 13 maggio 2017