Nel suo bel
saggio Teoria della classe disagiata
sulla crisi, forse epocale, di quello che un tempo si definiva “ceto medio”, il
giovane e brillante studioso Raffaele Alberto Ventura dà ampio spazio
all'analisi del nostro sistema scolastico, visto come uno dei più demagogici
della nostra epoca. Ispirandosi anche alle riflessioni di altri sociologi ed
economisti, Ventura afferma che negli
ultimi decenni, soprattutto in Italia, abbiamo reso infelici le persone
abituandole a uno stile di vita che ora non possono più permettersi; e che
questo le porterà prima o poi a ribellarsi contro una società che ha fatto
sentire come necessari anche molti beni superflui. Da parte mia ho pochissimi
rimpianti per quando la quasi totalità delle strade erano bianche, i campi arati
grazie ai buoi e nei paesi un' unica bottega vendeva di tutto, dall'ago per
cucire al lievito per fare il pane in casa. Resta il fatto che la crisi
economica, il disorientamento, la sfiducia, a volte il nichilismo che da tempo
colpiscono il nostro paese non affliggono in maniera così profonda altre
nazioni europee, anche perché, al contrario di noi, hanno salvaguardato, pur
riformandoli, l'ossatura dei loro
sistemi scolastici, contribuendo così a mantenere, malgrado la crisi, solide le
loro economie. Inoltre, al contrario di noi, non si sono «affidati [...] alla
propaganda dell'industria culturale e alle prediche degli intellettuali, che
fin da piccoli ci hanno educati ai lussi dello spirito e alla dissimulazione di
tutto ciò che, attorno a noi, è ‘economico’, ovvero la realtà». Così, per
evadere dalla realtà, ci siamo serviti anche della scuola, diventata
generalista, facile e realmente omologante nel far perdere, salvo il Liceo
classico e pochissimo altro, identità alla gran parte degli altri storici
indirizzi, illudendo peraltro i ragazzi che scegliersi a quindici-sedici anni il futuro
avrebbe significato comprometterlo per sempre. E per il
trionfo di una scuola del genere
si sarebbero ideati curricula scolastici fatti di “paccottiglia alla moda”. E,
aggiungo io, si sarebbe alimentato il disprezzo per il lavoro manuale,
sottovalutato l'impegno nello studio, reclutato molti docenti e dirigenti senza
adeguata preparazione per poi trattarli in maniera poco decorosa. Non fa così
un paese che ha veramente a cuore il futuro dei ragazzi ove quelli svantaggiati
stanno, non a caso verrebbe da dire,
inesorabilmente crescendo! La conseguenza di tutto ciò è che tra i due
milioni di candidati al prossimo concorso per il pur nobilissimo lavoro di
collaboratori scolastici (un tempo, di cui evidentemente vergognarsi chiamati
bidelli o custodi ) vi sono centinaia di migliaia di diplomati e laureati. In
altre parole, per dirla con l’autore del saggio, “la mobilità sociale è
diventata oggi più difficile di quanto fosse nel dopoguerra”. Intanto le
università sono spinte dal ministero, che finanzia di più chi sforna più
laureati, a raggiungere l’obiettivo in ogni modo, compresa una grande
generosità nel distribuire titoli e voti.
Una università di questo genere non dà molte prospettive alla maggior
parte degli studenti e “avvantaggia chi può spendere più degli altri” potendo
permettersi, dopo la laurea, master e specializzazioni varie, anche all'estero,
che garantiranno una professione corrispondente agli studi fatti. Non vedo
quindi perché molti rettori si stupiscano se i giovani sono poco attratti dalla
laurea. Per gli altri, cioè per la gran parte dei laureati, rimane la
desolazione di doversi inventare, spesso intorno ai trent'anni e oltre, un
lavoro e un futuro radicalmente diversi da come li avevano sognati. Un numero
crescente di giovani finisce così per scomparire dalla vita sociale chiudendosi
in casa o sopravvivendo grazie alle risorse delle famiglie, tuttavia sempre più
scarse. Non pochi scappano all'estero; e non solo i cosiddetti “cervelli”.
Molti lo fanno anche per andarvi a svolgere dei lavori di cui qui si
vergognerebbero, perché li vivrebbero come l'esibizione del loro fallimento. Ma
il vero fallimento è quello di una buona parte della classe dirigente e
probabilmente, se non interveniamo con urgenza e fuor di demagogia, anche
quello dell'intero Paese.
Valerio Vagnoli
(“Corriere Fiorentino”, 21 dicembre 2017)