Lo scorso dicembre, l'ex ministro Berlinguer è intervenuto
al Congresso dell'Associazione Nazionale Presidi e ha colto
l’occasione per lanciare un attacco sprezzante all’appello dei docenti
universitari “contro il declino dell’italiano a scuola” di un anno fa. Una
scuola degna di questo nome, ha detto, non può riconoscersi in coloro che
avevano elaborato e firmato il cosiddetto manifesto dei Seicento, in cui si auspica – ha sostenuto – il ritorno
a un passato in cui si espellevano dalle scuole i meno bravi e in cui questi
ultimi erano definiti – ha esclamato testualmente) “con un termine che
designava animali, capito? ANIMALI!” Si riferiva naturalmente alla parola “asini”,
che tuttavia non ha pronunciato, quasi volesse far intendere quanto fosse
profondo l'orrore che il termine gli avrebbe provocato solo a pronunciarlo.
Alla fine
del suo intervento ha lasciato il convegno. Insomma, se ce n'era bisogno, l'ex
Ministro ha confermato di far parte della numerosa schiera che, invece di
argomentare le proprie posizioni, preferisce demonizzare chi non la pensa allo
stesso modo, anche rispetto a tematiche così determinanti per lo sviluppo
civile e culturale del nostro Paese, che meriterebbero un confronto
costruttivo. E questo a dispetto della diffusa retorica del Dialogo con l’Altro
e col Diverso.
In realtà
l’appello nasce dai ripetuti allarmi di molti professori universitari. I quali
avevano ben capito, e purtroppo ampiamente sperimentato nella loro attività
d'insegnamento all'università, che senza una conoscenza appropriata della
lingua non si è cittadini degni di questo nome, ma sudditi. Perché, come
scriveva l'educatore più saccheggiato e forse più impropriamente preso a modello,
“È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende
l'espressione altrui”. Era quindi del tutto logico chiedere “una scuola davvero
esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella
didattica”, in modo da assicurare “il raggiungimento, al termine del primo
ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base”.
E
invece no! Guai a pretendere una scuola di qualità, perché questo
significherebbe, per certi amici dei poveri, penalizzare i meno bravi. Come se
porsi l'obiettivo di elevare le competenze linguistiche di tutti i nostri
ragazzi fosse una sorta di operazione passatista e nostalgica della scuola che
fu! Ed ancora, come se sfornare laureati che abbiano una conoscenza approssimativa
della nostra lingua potesse essere alla lunga compatibile con il nostro
sviluppo sociale e civile. En passant:
a Berlinguer e ad altri che come lui hanno ribattuto all’appello con formule
generiche di biasimo e categoriche prese di distanza, potrei anche far presente
che gran parte della mia attività professionale l'ho dedicata proprio a
salvaguardare il diritti di chi partiva da situazioni svantaggiate. E questo
non lo si fa chiedendo poco, lasciando correre, indulgendo; ma, per dirla con
Machiavelli, facendo “come gli arcieri prudenti, e quali parendo el loco dove
disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro
arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiungere
con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con l’aiuto di sì alta mira
pervenire al disegno loro”. Scuola “esigente” non significa dunque arcigna e
repressiva, significa che è determinata a far emergere tutto il potenziale
degli allievi chiedendo loro il massimo impegno e garantendo senza se e senza ma la qualità
dell’insegnamento. In gioco c’è il destino delle nuove generazioni e forse
anche la sopravvivenza della nostra democrazia.
Valerio
Vagnoli